domenica 29 dicembre 2013

Nyctophilia

Titolo: Nyctophilia.
Autore: ~Zewik
Rating: Verde.
Genere: Introspettivo, Malinconico.
Note: Incompiuta. (Ovvero: non ha né capo né coda.)
Completa: Sì.


Ci sono così poche cose ormai che mi fanno sentire viva.
L’acqua gelida e dolce nella gola.
La pioggia sulla pelle.
Il sapore del sangue e un dito che pulsa.

Sospiro.
Scrivo.
Tanto non sembro capace di far altro.
Lettera dopo lettera firmo la mia condanna all’inutilità.
Scrivo.
Parola dopo parola confermo la vanità della mia esistenza.

Prendo un sorso di caffè.
Anzi no. Questo rigo  di sopra è fantasia. A me il caffè nemmeno piace.

Mi piacerebbe sorseggiare del caffè.
Ma in realtà non mi piace, quindi mi accontento di pigiare questi tasti inutili.
Scrivo.
Frase dopo frase mi condanno a morte.
“Lunga è l’arte, breve la vita”.
Ma se non c’è arte e la vita si ostina a permanere laddove non è desiderata... lì succedono i casini.

Perdonatemi il modo di scrivere brusco.
Una frase dietro l’altra.
Fredda.
Pesante.
È che ormai scrivo come parlo.
Non riesco a farne a meno.
E io parlo poco. Molto poco.

Perdonatemi il modo di scrivere brusco.
Una frase dietro l’altra, vomitata, messa lì a casaccio, mi ripeto anche, perché no. Lo trovo così rilassante.
Ripeti.
Ripeti.
Ancora.
Ripeti.
C’è un che di religioso in ciò.
Del resto cos’è una preghiera?
20 Ave Maria, vai in pace.
Ripetilo ancora.
Una volta dopo l’altra.
Venti volte.
Ave o Maria, piena di grazia..
Ancora.
Prega.
Segui le pecore.
Sii lupo.

Sono arrivata alla seconda pagina, i miracoli esistono.
Forse perché gli ho fatto pubblicità.
O forse perché salto dei righi.
Frasi sconnesse.
Capoversi impigliati nelle parole.
Non si vogliono sbrogliare.
Questa non è arte.

Questa non è arte.
Queste sono cazzate.
Cazzate di qualcuno che non sa cosa scrivere e scrive ciò che gli passa per la testa in quel fottuto momento in cui gli sembra di poter diventare immortale.
Dante è diventato immortale.
Cos’ha Dante che non ho io?

Un cervello, per esempio.

Tutti abbiamo un cervello.

Okay. Dante lo sapeva usare.

Grazie.

Lo so.
Noioso.
È noioso ciò che scrivo.
Non ha nesso logico.
Ciò che non ha nesso logico stanca, fa sentire spossati, la gente cerca di seguire e non ci riesce, alla fine abbandona, rinuncia.

Il fatto è che sono vuota.
Briciola dopo briciola, oncia dopo oncia, mi avete tutti quanti voi svuotata di ciò che ero, facendomi diventare ciò che sono, e non ho idea di ciò che sono.
È colpa vostra.
Mia e vostra.
Colpa nostra.

Vomito parole.
Cadono qui e lì a casaccio.
Disordinatamente.
In attesa che le dita gli diano un ordine.
Ma le dita sono pigre. Sentono la fiacchezza nelle ossa, nelle carni.
Sento la fiacchezza nelle ossa, nelle carni.

Vorrei poter ascoltare Beethoven.
Solitamente mi calma.
Non c’è nulla di più rilassante della seconda sinfonia.
Ma non posso.
È notte fonda.

I demoni mi circondano.
So che sono lì, in agguato, appena oltre il confine dell’alone bianco della luce dello schermo.
Attendono un mio passo falso.
Basta chiudere gli occhi.
Sono lì.. chiudo gli occhi, un sospiro mi riscuote, sussulto e li riapro ma è tutto come prima, mi impressiono, il mio cervello sta provando ad uccidermi.
Non posso dargli tutti i torti.
Poverino.

È che non mi sento in grado.
Di vivere, intendo.
Scusami, scusami.
Io non voglio vivere.
Non è colpa tua.
Mi dai una ragione per restare.
Ma ne ho altre mille per andare.

giovedì 19 dicembre 2013

Beautiful monster

Titolo: Beautiful monster.
Autore: ~Zewik
Rating: Arancione. (scene a contenuto sessuale)
Genere: Romantico, Slice of life.
Tipo di coppia: Het.
Note: Lemon, Lime.
Completa: Sì.


 Quando ritorno a casa so già cosa – o meglio, chi – mi attende, dunque non metto fretta nel mio salire le scale, nell’aprire la porta, nel togliermi la giacca. Ho ancora dello sporco sotto le unghie, so che Alexandra mi controllerà, e so anche che i suoi occhi verdi rifuggiranno i miei e nonostante questo io non mi vergognerò minimamente di ciò che sono.
Nel momento stesso in cui poso la giacca sull’attaccapanni sento la sua presenza nella stanza: quando mi volto è lì a fissarmi sospettosa.
«Dove sei stato?» chiede subito.
«A mangiare fuori» rispondo altrettanto in fretta, quasi sfidandola con lo sguardo.
«E non mi hai portata con te?» ironizza, sapendo già di cosa parlo. Mi viene spontaneo farle un sorriso che ha un che crudele.
«Se tu volessi, potrei farlo.. ma dubito che il tuo stomaco reggerebbe».
Alex, mia moglie, è una donna che ho sempre trovato bellissima, persino quando la conoscevo appena: ha vaporosi ricci rossi e gli occhi verdi, un viso cosparso di efelidi e una corporatura esile ma morbida. Ci conosciamo da almeno cinque anni ma abitiamo insieme e ci amiamo solo da tre... e ci va bene così. Non mi sono mai aperto così con qualcuno, non ho mai trovato nessuno che fosse disposto ad accogliermi con così poche riserve, non ho mai vissuto un’esperienza simile.. devo ammettere che la amo da impazzire, perché senza di lei con tutta probabilità non sopravvivrei a lungo.
«Bè.. magari potrei stupirti, terribile presuntuoso» dice lei, avvicinandosi a me e mettendomi le braccia attorno al collo; istintivamente la stringo a me e chiudo gli occhi, inspirando il suo profumo di miele e fiori.
«Mh.. preferisco comunque andare da solo» mormoro, rifiutandomi di aprire gli occhi e interrompere quel contatto che, dopo tutta la morte che ho provocato meno di due ore fa, sa così tanto di vita.
«Sei irrequieto, però» sussurra lei, rompendo l’abbraccio mio malgrado e prendendomi la mano. Questo gesto mi provoca una reazione strana, come di smarrimento: qual è l’ultima persona che ho preso per mano prima di Alexandra? Mi sembra di avere come un vuoto di memoria, e la cosa mi confonde. Forse lei nota il mio disorientamento e si volta verso di me, mi guarda con i suoi occhi verdi, mi chiama.
«Aidan? Aidan.. tutto bene?» mi prende il viso fra le mani perché io la guardi negli occhi.. che sciocca, non ne ha mica bisogno: i miei occhi sono incatenati ai suoi, le mie labbra vogliono le sue, ogni atomo del mio corpo cerca disperatamente l’atomo corrispondente nel corpo di Alexandra.
«Se ci sei tu, sì» rispondo con voce roca, attirandola a me e baciandola: il mondo esplode intorno a me, questa donna non può farmi quest’effetto.. la amo così tanto, non può essere vero, devo stare per forza sognando.
Eppure quando riapro gli occhi lei è lì fra le mie braccia, che mi morde piano il labbro inferiore, come un gattino che gioca a fare la tigre; mi viene istintivo sorridere e lei molla il labbro.
«Cosa c’è?» chiede, contrariata, quasi sul punto di imbronciarsi, e io sorrido di più.
«Niente..».
«Hai ancora il sapore in bocca» mormora, senza smettere di fissarmi, come studiando le mie reazioni. Non capisco la frase, quindi inclino il capo di lato mentre il mio cervello cerca di venirne a capo.
«...quindi?».
«Mi piace. Sai che mi piace» dice, a fior di labbra appena prima di baciarmi. Quella frase mi provoca una reazione estrema: spingo la mia eccitazione contro il suo corpo e lei sussulta, ridendo.
«Ma dai! Sei impossibile!» mi prende in giro, mentre le mordo dolcemente il collo e lei mi infila le mani fra i capelli, gettando la testa all’indietro: una cascata di capelli rossi mi investe mentre sollevo lo sguardo sul suo viso.
«E tu sei bellissima» sorrido, mentre le tolgo lentamente gli indumenti lì, nell’ingresso di casa nostra, e lei si morde le labbra ridendo.
«Certo.. come un muflone» ribatte, mentre anche le sue mani si infilano sotto la mia camicia, a contatto con la mia pelle che, in confronto alla sua, è appena tiepida. La sua carne mi trasmette un calore di cui ho disperatamente bisogno, mi tuffo fra le sue braccia e ci cerchiamo, ci amiamo, ci completiamo. Ogni volta che faccio l’amore con lei è così: un bisogno disperato di sentirci completi, uniti, ogni volta di più, e anche stavolta non è diverso, anzi, questa volta lei mi lecca le mani e le unghie, lavando il sangue sotto di esse con la saliva.. e questo mi fa sentire bene. Alexandra mi comprende, Alexandra sa di cosa ho bisogno, io so renderla felice, so starle accanto, noi sappiamo stare insieme, noi lo vogliamo.
Quando l’amplesso è finito entrambi sentiamo ancora dell’energia pervaderci, e restiamo a guardarci: i nostri corpi sono stanchi, mentre le nostre anime non si stancherebbero mai di amarsi.
«Davvero ti piacerebbe?» e quando lo chiedo so già la risposta: no, non le piacerebbe. Non le piacerebbe vedere ragazzini sventrati e io che ripulisco le loro ossa con i denti in modo ossessivo, fino a renderle praticamente bianche. Non le piacerebbe vedere il suo amato Aykir diventare un mostro orrendo che ha solo sete di sangue e fame di carne umana. Non le piacerebbe fuggire via da me e sentirsi ferita da ciò che faccio.
«Forse non troppo» ammette lei, carezzandomi il viso e guardandomi negli occhi.
«Forse non troppo» concordo, muovendo appena le labbra, e lei intreccia le dita nei miei capelli.
«Troveremo un modo per condividere anche quello» propone, e io sorride scettico.
«Ne dubito. Per me è nutrimento, lo sai.. per te sarebbe solo sofferenza» rispondo serio, baciandole la fronte. Il pavimento è freddo e succhia via anche quei residui di calore restati dopo l’amore, quindi a fatica mi alzo e le porgo una mano perché venga con me, dopodiché la prendo in braccio e lei mi bacia il collo e le spalle mentre mi dirigo in salotto: ci stendiamo nudi sul divano e lei ci avvolge in una enorme coperta di pile.
«Non mi hai mai detto chi è di solito.. la tua vittima tipo» mormora, e sento il suo disagio nel pormi quella domanda.
«Sicura di volerlo sapere?» le chiedo paziente, come se stessi parlando ad una bambina. Lei non si offende e capisce che è necessario che io glielo chieda, così arrischia un altro tipo di domanda.
«Potrebbe non piacermi?» sussurra, guardandomi attentamente.
«Non mi guarderesti più con questi occhi adoranti» sorrido, pur sapendo che è vero. Lei sorride in risposta, timidamente, e mi bacia il petto.
«Non c’è nulla che potrebbe farmi ricredere sul mio amore per te, Aidan».
Resto in silenzio a guardarla negli occhi, quasi come se mi stessi godendo gli ultimi istanti di amore imperituro, poi chiudo i miei e getto la testa all’indietro sul cuscino.
«Ragazzini, perlopiù. Dai dieci ai quindici anni al massimo. Quelli che sono soli, che nessuno vuole, a cui nessuno pensa. Impiegati nel lavoro nero o peggio. Così nessuno nota se spariscono».
La sento ancora respirare tranquilla su di me, ma le sue braccia si stringono di più attorno al mio petto. Mi viene naturale accarezzarle i capelli, ad occhi chiusi, e lei non si scosta.. a quel punto sono troppo curioso e la guardo con le palpebre socchiuse. Mi sta osservando attentamente, come un gatto che ha visto qualcosa muoversi fra l’erba, pronto a scattare.
«Dici sul serio o mi stavi prendendo in giro?» chiede incerta. Io apro completamente gli occhi e la fisso con le sopracciglia aggrottate, così lei intuisce la mia risposta.
«..perché proprio loro?» ansima, e comprendo che l’impatto emotivo sta avvenendo un poco in ritardo. La stringo a me non per impedirle di scappare, ma per impedirle di cadere dal divano, e lei affonda le unghie nelle mie braccia, senza fiato.
«Gli adulti sono più facili da prendere, ma è più difficile che siano sani e che nessuno noti la loro sparizione. Se un senzatetto finisce nel nulla gli altri senzatetto si chiedono che fine abbia fatto quella vecchia spugna.. se sparisce un bambino quasi nessuno lo nota: avrà trovato fortuna, se lo sarà preso qualcuno, l’avranno tolto dalla strada, sarà finito in orfanotrofio.. e così via. I bambini sono tutti uguali» mormoro, socchiudendo gli occhi, e lei stringe i denti: la sento tendersi su di me.
«E se tu avessi un figlio?».
«Ne ho avuti, in passato».
La cosa non la stupisce, lo sa già, ma evidentemente intende dire qualcos’altro.
«Intendo.. ora».
Mi fermo a guardarla, pacato.
«Non cambierebbe nulla, lo sai. Sarei un padre e un marito modello che fa il sicario e ogni tanto divora qualche bimbo. Sono io, questo. Lo sai».
Lei si sofferma un attimo sul pensiero e rabbrividisce.
«Ehy.. me l’hai chiesto tu» mormoro, infastidito, e distolgo lo sguardo da lei: mi sto arrabbiando, e non va bene. Lei scuote il capo.
«È colpa mia».
«Che?» mi volto nuovamente verso di lei, colpito.
«Prima di tutto non dovevo chiedertelo» rabbrividisce ancora, senza controllo, e io mi avvolgo una sua ciocca di capelli rossi attorno alle dita, nervosamente. «E ancora prima di questo, non dovevo costruirmi una risposta perfetta in testa» conclude, guardando la tv spenta di fronte al divano.
«Risposta perfetta?» chiedo, senza capire. Si volta verso di me: anche lei è arrabbiata, gli occhi verdi le scintillano pericolosamente, sull’orlo delle lacrime.
«Sì!» esplode, rabbiosa, mentre le lacrime le rigano le guance. «Mi sono detta che sicuramente uccidevi criminali, che andavi a caccia della feccia umana e la toglievi di mezzo, che..» si interrompe in singhiozzi, e in me la tristezza prevale sulla rabbia. La abbraccio stretta e lei affonda il viso nel mio petto, stringendomi altrettanto forte, singhiozzando. Le carezzo i capelli senza sapere cosa dirle, le parole mi si sono seccate sulla lingua, vorrei solo che non dovesse mai piangere per colpa mia, tutto qui... ma forse chiedo troppo a me stesso, sono una persona troppo orribile perché ciò possa avvenire.
«Piccola...».
«Aidan..».
Decido di spiegarle, con calma e pazienza, le mie ragioni: lei mi comprende, io mi fido di lei, non mi viene nemmeno per un attimo il dubbio che lei potrebbe non capire, abbandonarmi, andarsene, guardarmi con odio.
«..sono io stesso un criminale, io stesso uccido persone per denaro e non... come potrei uccidere criminali? Sarebbe un modo meschino per rimettermi in pari con i litri di sangue che ho versato» mormoro, tentando di farle capire. «Inoltre i criminali che intendi tu spesso sono drogati, fumatori, alcolizzati e solo gli déi sanno cos’altro.. non ti piacerebbe vedermi intossicato da nicotina, alcol e sostanze stupefacenti varie».
«No, infatti..» mormora lei, tirando su col naso. Incoraggiato, proseguo:
«...inoltre gli adulti hanno una carne meno tenera. Quando vai dal macellaio tu ordini il vitello, non il bue affaticato dal lavoro.. la sua carne risulterebbe immangiabile».
Alexandra chiude gli occhi e percepisco il suo respiro calmarsi contro la mia pelle: mi scendono piccoli brividi lungo la colonna vertebrale. Amo essere qui, amo essere vivo, amo lei.
«Lo capisco» sussurra. «Ma se tu avessi un bambino qui, ora, con te.. lo mangeresti?».
«Non sono così disumano, Alex» mormoro, quasi con tono di rimprovero, e lei apre gli occhi per guardarmi.
«Davvero?».
Sorrido.
«Sì».
«Però sei un mostro».
«Non l’ho mai negato» dico con dolcezza, e lei mi passa un dito sulle labbra.
«Un bellissimo mostro» mormora incantata, e io sorrido di più, con ancora più dolcezza.
«Un bellissimo mostro» mormoro, ripetendo quello che mi dice, come se non potessi credere che quelle parole possano essere combinate proprio in quel modo solamente per me.
«Sì» dice, più decisa, passandomi le dita fra i capelli neri. «Sei un mostro, un bellissimo mostro».
«E...?» la incito a continuare. Lei mi guarda negli occhi, come se mi stesse sondando l’anima, e io mi sento quasi intimidito da lei, seppure solo per un istante.
«...ma non mi importa» conclude, facendomi un piccolo sorriso timido. E l’amore che vedo nei suoi occhi è sincero, puro, come prima di iniziare quel discorso. Non c’è dubbio nel suo sguardo, nessuna incertezza agita il suo animo.. e io mi sento compreso, ancora. Vorrei solo scomparire fra le sue braccia.
«Ti amo» mormoro, e sento il suo cuore sul mio petto accelerare.
«Anche io ti amo» risponde con un soffio, prima di baciarmi sorridendo.

martedì 17 dicembre 2013

Seconda tappa di Marte- Annalisa Caravante

Presentazione del romanzo

"L'inverno e la primavera" 

di Annalisa Caravante


Sul mio viso scesero delle lacrime, quando mia suocera mi raccontò di suo fratello, che alla giovane età di 19 anni contrasse una malattia a causa della guerra, quando era soldato.
Perché inizio così a parlare de L'inverno e la primavera? Perché Guido è uno dei tanti personaggi che avrà il suo spazio fra le righe del romanzo.

Quanti racconti anche dai nonni, ho sentito, storie dimenticate, ma che forse aleggiano ancora nell'aria e chiedono riscatto alla vita. Ho creduto di fare questo scrivendo L'inverno e la primavera? No, non credo, più che altro ho deciso di raccontare una storia, inventata, ma con particolari reali e inserendovi la breve ma intensa avventura di Guido. Come in questo passaggio:

“Guido aveva un braccio sulle mie spalle e io lo prendevo in giro dicendogli che sarebbe diventato più famoso di Valentino. Lo pensavo veramente perché mio fratello era bello e alto; aveva un viso da bravo ragazzo, anche se i suoi prolungati silenzi lasciavano pensare che fosse molto taciturno.
- Se divento famoso, compriamo una bella casa a un piano alto, così puoi vedere il mare come si deve e non da quel piccolo angolino della tua finestra. - mi disse con la sua bella voce.
- E mamma e papà? Come faranno a salire lassù, quando diventeranno anziani? - domandai guardandolo.
- E… allora compriamo due appartamenti, un altro al piano terra, ma con un bel terrazzo dove d’estate papà può sedersi e giocare a carte con i vicini.
- Ma com’è che bello come sei, non hai ancora trovato una ragazza?
- Eh… Martina, ma tu pensi sempre a queste cose?
- Eh certo che ci penso! Perché, mamma e papà non ci hanno pensato? Altrimenti noi come staremmo qui?
- E va be', mo aspettiamo prima che io guarisca per bene e poi ti prometto che ci penserò, però, sarai sempre tu la numero uno!”



Non è un racconto sulla guerra, c'è un forte richiamo, questo sì, ma è la vita che vuole andare avanti pur contando le ferite del passato. Così, Martina, giovane sedicenne analfabeta, esce dai duri anni della guerra guardando avanti, con un sogno che per noi potrebbe sembrare nulla: imparare a leggere e a scrivere.

- Io, parlare? Io sono ignorante, dottore, non so neanche leggere e scrivere e credete che questo interessi ai miei genitori? Ho un libro, sì, ma da sola non riesco.
- Non hai qualche amica, qualcuno che possa aiutarti?
- Angela ha sempre da fare e i miei fratelli non sanno farlo neanche loro.
- Mmm… Va bene, Martina, facciamo una cosa, dammi un po’ di tempo per organizzarmi e sarò io a insegnarti a leggere… e a scrivere. 
- Dite sul serio?
- Certo!
- Grazie dottore, voi realizzate un mio sogno!”

Così Cristian cerca di lasciare alle spalle i lunghi mesi in un lager tedesco, riprendendo la sua attività di giornalista e raccontando al mondo le atrocità viste:

- Ci vogliono prove per scrivere articoli cosi forti! Io... io sono andato sulla fiducia, non l'ho letto prima, ma adesso il nostro giornale è invitato a dimostrare quanto hai scritto.
- Prove, vuole delle prove? Allora gliele chieda a tutte quelle persone che sono vive per miracolo o a quelle madri private dei loro figli o a quelli che portano su di loro i segni delle torture! Li ascolti, si faccia carico delle loro sofferenze e metta nero su bianco! Vuole forse negare che molte delle persone deportate non sono più ritornate a casa? S'è chiesto dove sono finite, perché non esistono neanche più i loro corpi?
- Cristian...
- Io non perderò tempo a cercare le prove di quell'inferno perché quell'inferno l'ho vissuto sulla mia pelle...”

Di Mara, sua collega, si perdono le tracce, ma tuttavia la vita riprende i suoi ritmi, gli americani vanno via, gli italiani possono finalmente guardare al futuro e in questo futuro c'è l'incontro fra Martina e Cristian. Troppo diversi fra loro? E allora? È l'amore che decide, essi semplicemente, obbediscono ai loro cuori:
Mi bloccò appena uscita dall’ospedale, nello spiazzale che dava sul mare; mi strinse le braccia e mi chiese cosa avessi.
- Cos’ho, cos’ho? - ripetetti alzando la voce.
- Sì, cos’hai?
[…]
- ... Che cosa ho io che ti va bene? Io non sono niente, non… so… io non so neanche leggere e scrivere.
- Ma sei una panzarotta scema, allora?
- Scemo sei tu!
[...]
- Ti amo! Questo ti basta? - mi disse.
- Ho solo sedici anni e tu… tu sei laureato.
- E perché lo dici come se fosse una malattia?… È vero, sono laureato, ma cosa c’entra con il nostro amore? 
- Non t’importa?
- Di cosa, Martina?
- Che... non sono andata a scuola.
- No! Non m’interessa proprio. Per me puoi anche non saper fare due più due... Io ti amo e basta!”.

Ma si sa, la vita è un continuo alternarsi d'inverni e primavere e sconvolge, altera, disperde, riconcilia, allontana e diventiamo come foglie al vento; e se questo vento riportasse indietro qualcosa dal passato?
- Lo sapevi che il mio lavoro mi portava a questo.
- Esatto, il tuo lavoro! Adesso però non si tratta del tuo lavoro, tu non fai l’investigatore!
- Ma tu... pensa se fosse accaduto con Francesco! Tu sai che l'ultima volta che lo hai visto, lo stavano portando in un campo di sterminio e anche per colpa tua, adesso vieni a sapere che forse è vivo e cosa fai? Non corri a cercarlo? Mara è amica mia quanto Francesco è amico tuo!
- Amica!... E tu poi mi avresti lasciata partire per cercare Francesco? […] Come se non ti conoscessi! Lo so che quando ti metti in testa qualcosa, niente e nessuno ti distoglie.
- E allora perché stiamo qui a parlare?
- Perché tu devi sapere che se parti, al tuo ritorno non mi troverai!
- No, Martina, perché mi fai questo”

Ma con L'inverno e la primavera si ride anche, spesso l'estate si affaccia con una risata, una battuta, un insieme di gag portate avanti da Luca e Federica, Paolo e Nicola:


- So' stati troppo tempo assieme, cara mia. - diceva mio cognato.
- E che cosa ne potevamo mai sapere io e Martina, eh? Sono cugini e io non immaginavo proprio una cosa del genere.
- Eh ia! Perché non lo sai che il primo amore dei cugini è sempre per qualche cugina?
- Ma cosa dici, ma staje pazzianno?
- Ue senti, da che mondo è mondo, i cugini hanno sempre avuto i primi stimoli verso le cugine.
- Stimoli?
- Sì, Federì, capisci a me!
- Che cosa devo capire? - chiese mia sorella, mentre Nicola entrava in casa portando una cesta di frutta.
- Che quando i maschietti cominciano ad avere i primi… quando comincia a crescergli… quando si…
- Lucariè, vuoi dire quando hanno i loro primi istinti sessuali? - intervenne il giovane.
- Eee… Nicò, come sei volgare!
- Volgare?
- Eh sì! Insomma, quando sono in quella fase, si vogliono sfogare con le cugine.
- Ma Lu, chillo tiene dieci anni! - esclamò Federica.
- E allora? Io ho iniziato a nove anni.    
- Se se! - lo prese in giro Nicola.
- Ue bello, è così, avevo nove anni.
- Per questo mo già non… - disse mia sorella.
- Non che cosa?
- Nu' me fa parlà!
- No no, cosa vuoi dire?
- Ce sta 'o guaglione annanze.
- No no, dì pure, voglio sentire! - rispose Nicola.
- Mia cara moglie io non ti faccio mancare niente, neanche a letto!
- E va be'!
- Cavoli, che conversazione! - esclamò il ragazzo.
- Lucariè, - riprese Federica - ti dico solo una cosa, abbiamo solo un figlio e tiene già dieci anni!”.

E questo è in breve il mondo de L'inverno e la primavera , fra le cui pagine conoscerete Francesco, Luigi, Teresa, Guido, Giorgio e tanti altri personaggi che aiuteranno Martina quando l'inverno sembrerà la sua unica stagione.    
... penso che tutto faccia sempre parte di quel continuo alternarsi delle stagioni” 


Ringrazio il blog Parole e Inchiostro per avermi ospitata e tutte le persone che interverranno. 

Annalisa Caravante



Annalisa Caravante è nata a Napoli nel 1977 ed è diplomata in lingue. Ha molteplici interessi, come il disegno e la fotografia artistica, ma ama soprattutto scrivere. Lo fa sin da piccola, quando inventa brevi racconti da leggere alle sorelle e ai piccoli della sua famiglia. In seguito, già in età adolescenziale, scrive alcune poesie.
Nel 2004 scrive il suo primo romanzo “Odissey life”, al quale ne segue uno nel 2008, “Tersa”, entrambi inediti. Contemporaneamente scrive racconti comici su un forum.
Nel 2008 nasce la prima stesura de “Il paese degli aghi di pino”, ispirato ai lavori di Matilde Serao. Il romanzo, completato nel 2011, è la sua prima opera pubblicata, con l'editore CoreBook di Perugia.
Nel 2012 vince un concorso con la casa editrice LiberArti di Roma con 4 racconti piazzandosi fra i primi 10 vincitori del premio Love.Jpg - immagini d'amore:
Il molo degli innamorati
Io e i miei occhi abbiamo visto
I morti bevono inchiostro
L'uomo che cadde dal cielo
Che usciranno in un’antologia
Nel 2013, sempre con l'editore CoreBook di Perugia pubblica il romanzo “L'inverno e la primavera”.


Editore: CoreBook
Anno pubblicazione: 2013
Formato: PDF, EPUB
Prezzo di vendita: 7,99 € 


Disponibile in tutti gli stores online

Grazie Annalisa per essere passata da noi.
Il blog Parole e Inchiostro ringrazia tutti i partecipanti.


martedì 10 dicembre 2013

Pensieri

Tempo fa avevo una pagina tutta mia, in cui scrivevo alcune note accompagnate da immagini che ora ho perso e non saprei dove ritrovare. 
Non avevo un tema preciso. Buttavo giù quello che l'estro mi diceva di scrivere. 
Non sono nemmeno grandi cose: qualche parola buttata qua e là, ma che vorrei comunque condividere con voi. 
Non sono delle poesie.
Buona lettura! 
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Luce. 

Un tuo abbraccio mi stringe forte, la tua testa si fonde col mio petto, le mie mani ti stringono i fianchi,
quasi come se tu dovessi scappare via. Il profumo dei tuoi capelli mi ricorda il tuo sorriso. Non so perché.
Non ho la capacità di separare ogni sensazione che mi dai.
Sollevi piano gli occhi.
Non ricordo nemmeno chi sei, chi siamo.
Siamo occhi. Siamo respiri. Siamo un bacio.

Buio.
Sogno attimi che mai vivrò.
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Chissà se mi pensi ogni tanto. Posso chiederti se sfumo in qualche tuo pensiero della notte? Se per caso hai mai creduto di avermi davanti quando stringi la mano ad un ragazzo che hai appena conosciuto? Se hai pensato di voler far l'amore con qualcuno con la disperazione di chi vuole dimenticare? 
Chissà se mi hai visto mentre guardavi un ragazzo di spalle, fermo davanti ad un'edicola; oppure hai visto il mio profilo dentro un'auto, mentre aspettavi che scattasse il verde, prima dell'ennesima noiosa giornata di lavoro.  
Chissà se mi cerchi nelle sue labbra, nei suoi occhi, tra le sue mani o aspetti con ansia che da quella porta, prima o poi, vedrai spuntare il mio faccione e il mio sorriso.
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E' mattina.

L'immagine del tuo volto appare sfocato dietro il vetro appannato dal vapore della doccia.

Il tuo viso è scarno. Le tue dita toccano leggere le tue guance. Senti ancora i suoi piccoli morsi e i suoi pizzichi. Adorava quelle appendici che tu, invece, non hai mai sopportato.

Fissi i tuoi occhi, ancora rossi dopo aver lasciato scorrere le tue lacrime del mattino nello scarico della doccia. Sotto quel castano chiaro che ha raccolto i raggi della sua luce, marcano i contorni due macchie scure, simili a sorrisi di una luna nera.

Luna.

Quegli occhi erano i suoi Occhi di Luna. Quanto tempo ha passato a raccogliere i tuoi sguardi? Quanto tempo è passato dall'ultima volta che i tuoi occhi l'hanno visto suonare alla tua porta? Asciughi l'ennesima lacrima. Ormai sei stanca. Non hai più voglia di lottare.

Sei come un corpo morto che si lascia trascinare dalla corrente.



Ti sei innamorata di un bastardo. Questo non lo neghi. Di un fottutissimo bastardo!

Cerchi nella memoria tutti quei momenti in cui hai toccato il suo viso, il suo corpo. Li cerchi e scopri di averli ancora vividi nella tua memoria.

Quel petto su cui hai dormito nelle notti chiare e umide dell'estate. Quel profumo di mare sulla sua pelle, dopo aver fatto l'amore sotto le stelle.

Quelle mani che ti stringevano le spalle, mentre una parte di te moriva durante il funerale della tua cara amica. La sua camicia nera era zuppa delle tue lacrime, ma lui era lì. Teneva salda la tua anima e la cullava oltre il palpabile dolore.

Aveva lasciato che i tuoi pugni di rabbia e disperazione gli gonfiassero un labbro, perché aveva capito che in quel momento avevi bisogno di reagire, avevi bisogno di bruciare quella rabbia nelle vene.

Era stata la sua mano poggiata sul tuo viso a fermare la furia.



Ora quella mano non c'è. Ora che ti servirebbe avere lui al tuo fianco se n'è andato. Se n'è andato quasi senza un perché, solo come i veri bastardi sanno fare.

La tua rabbia iniziale ha lasciato spazio alla disperazione e poi all'apatia.

Il pensiero è fisso, come i tuoi occhi. Occhi. I suoi Occhi di Luna non esistono più.

Tocchi i tuoi lineamenti sul freddo riflettente dello specchio.



Ti volti le spalle, lasciando i frammenti di vetro dentro il lavandino; macchiati di quel sangue che pensavi non avere più, perché il tuo cuore non batte più.

Guardi le tue nocche come se guardassi un pezzo anatomico al museo delle cere. Pelle, carne, sangue e schegge di vetro. Quasi non senti il bruciore della tua mano.

Nulla t'interessa più. Lui se n'è andato.

La tua vita se n'è andata.
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Non ricordi l'ultima volta in cui ridere non sia stato il riflesso della felicità. Non hai idea dell'ultima volta in cui una voce sapeva farti vibrare l'anima.
Non ricordi nemmeno più quella voce.

Non ricordi nemmeno più quell'ultima volta in cui ti ha strappata da te stessa. E giù, giù, ancora più giù.... sola e spenta come l'ultima stella caduta tra i più comuni sassi di una pietraia in mezzo al nulla.

Schiava delle sue ultime parole. Schiava di brividi promessi e non mantenuti. Schiava di un Amore ch'è stato un volo tra i rovi.



Tiri i tuoi biondi capelli morbidi dietro le orecchie. Appesi hai quei piccoli orecchini che ti piacciono tanto. Sorridi per la loro tenerezza, mentre asciughi una piccola ciocca dalle tue nuove lacrime.

Guardi l'orologio. E' tardi. Le amiche ti hanno invitata fuori. Non sai se hai voglia.

Il tuo enorme peluche si posa tenero sul letto. Potresti passare la notte a parlare con lui, fedele e paziente soccorritore di rabbia e lacrime. Lui che ti abbraccia quando, stanca dei pensieri, ti addormenti sfinita.

Ti alzi dalla sedia per spostarti sul letto. Ti ci butti sopra, quasi come un automa. Vorresti il suo corpo lì. Vorresti le sue parole. Vorresti lui, non la pelle sintetica della tua tartaruga gigante.

Vibra il tuo cellulare sulla scrivania, dove l'hai lasciato.

E' ora di uscire. E' ora di lasciare dietro le spalle quel letto di sogni.

Ti volti un'ultima volta, prima di spegnere la luce. Ti sembra che vicino all'orma del tuo corpo sul letto, ci sia, distinta, anche quella di lui.

"Riposa nei tuoi sogni e riempiti di polvere nei miei pensieri".



La musica si sente già da una grande distanza. Le lacrime le hai lasciate nel buio dei tuoi segreti e lì resteranno.



... almeno fino a quando non sarà un altro amore a parlarti.
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Quando sei bambino pensi che l'orco delle favole abbia un corpo e un volto, abbia una sua materialità, un suo modo per evitarlo. Quando sei grande, scopri che l'orco cattivo non ha né gambe, né volto: ti rincorre, ti acchiappa, ti sbrana; è la sua immaterialità che t'impaurisce ancora di più: non puoi afferrarlo, non puoi nasconderti.



Ma nella notte anche la luce della Luna può salvarti.

Sfiora il cielo con gli occhi, uomo, in attesa che compaia la Luna.
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E' nell'aria il tuo profumo; sono nel cielo i tuoi occhi. Sei ovunque e non ci sei.

Ragazza che vieni dal vento, lascia che il tuo cuore riposi tra le mie braccia, che i tuoi occhi si chiudano piano nella notte tra le stelle.
E se il nero coprisse le tue spalle e se la tempesta scompigliasse i tuoi capelli, lascia che siano le mie dita a coccolare il tuo splendore; lascia che siano le mie braccia a strappar via la paura.
E tu sei là, dietro quel sorriso, nascosta sotto un cappello.
Sei là e ti aspetto.
Perché voglio nutrirmi di solitudine e morire tra le tue braccia.
Ti aspetto nella nebbia della sera, nel mio sospiro alle luci dell'alba, nel mio sorriso nel caldo sole del mattino.
Ti attendo, ma sarò un seme nel deserto: aspetta l'acqua senza poterne mai vedere il riflesso.
Ti aspetto, Acqua della mia vita, anche se nei tuoi occhi non mi specchierò mai.
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Il vento freddo spazza la strada, mentre le nuvole corrono veloci per coprire la luce di questa Luna piena.

Vado senza meta.. non m'importa dove vado, m'importa che ci sia tu nella mia mente.

Sorrido alla luna, velata di cobalto.

Sento ancora il tuo profumo, dolce sinfonia che penetra come un ago. Sei tu, soltanto tu.

I tuoi occhi, i tuoi capelli, le tue mani...

Corre la mia fantasia tra le vie deserte. Ti vedo bambina, sposa, amante, passione e contraddizione.

Mi vesto e mi rispoglio di te, insaziabile della tua luce e del calore della tua pelle.

Il mio respiro condensa la tua immagine e svanisce al soffio gelido della solitudine.

Ci sei tu davanti ai miei occhi chiusi, ma nessuno davanti alla mia porta.

Ti aspetto, amore, tra le nuvole di cobalto che rubano la luce alla Luna.
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Inquietudine.

Striscia piano, come nebbia s'incunea negli angoli più bui sollevando macigni e sgretolandoli al suono d'innocue parole.

Ciò che resta è polvere.
I tuoi arti restano immobili, nella fissità dell'attimo che deve ancora venire. Inquietudine.
I tuoi occhi ti mostrano una realtà liquida, evanescente. Le tue dita riescono ad imprigionare poche tracce di umidità.
Il vento dell'incertezza spira vorticoso: l'impeto dell'invisibile aria, si scaglia tra la violenza dei tuoi pensieri. Ora è brezza; ora è bora.
Resisterai?
Stai saldo sui tuoi piedi, non è il momento di volare. Un respiro e inizia la tua corsa contro il vento.

sabato 7 dicembre 2013

Cannibalism

CANNIBALISM

Autore: ~Zewik.
 

AVVISO: QUESTA ONE SHOT NON È CONSIGLIATA AD UN PUBBLICO SENSIBILE.
CONTIENE MATERIALI VIOLENTI E/O ESPLICITI.

Genere: Horror, Introspettivo, Sovrannaturale.
Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza.
Rating: ROSSO.
Completa: sì.

Un respiro. Un altro.
Sono ancora vivo o sto solo respirando?
Brandello a brandello è come se sentissi la mia anima sfaldarsi, cadere in pezzi, ad ogni brano di carne che strappo dall'osso.
Si può considerare cannibalismo? So già la risposta: no. Perché appartengo a tante razze, quindi a nessuna. Non potrei mai, mai essere cannibale.
Muovo le dita dei piedi immerse nel vermiglio, sono viscose, scivolano le une sulle altre ma fanno attrito, non è sangue puro, il sangue puro è impossibile da ottenere. Sollevo una mano e osservo i rivoli rosso cupo scivolare sul polso, sul braccio, riempirmi l'incavo del gomito che schiocca nel piegare il braccio sul ginocchio.
L'odore era ciò che più mi esaltava, ma ora ce n'è troppo, davvero troppo. Mi sento prendere alla gola dall'odore metallico e salato del sangue, il metallo sfuma nel sale, davvero il sangue è salato. Mi lecco un dito, osservo il suo pallore in quel mare di rosso cupo. È semplicemente.. poetico.
Intendo, il sangue sulla neve, macchie rosse sul bianco, è facile da ottenere. Ma provare a fare macchie bianche sul rosso. Impossibile.
Qualcosa s'incrina nei miei pensieri quando sento un singhiozzo. Sospiro e mi volto, la afferro per i capelli, si leva un urlo.
I miei occhi, viola ed innaturali per un umano, incontrano i suoi semplicemente marroni, nemmeno color nocciola, proprio di un marrone noioso e umano, animale. La fisso negli occhi e lei singhiozza, piange, il suo viso è deformato dalla disperazione, dal terrore. Lascio che il mio viso assuma un'espressione compassionevole e lei si rasserena appena, piagnucola.
-Ti pre-ego..- sussurra, o ci tenta. La sua voce ha la stessa intensità di un trapano elettrico, arriccio il naso infastidito e chiudo gli occhi, sbattendole la testa sul bordo della vasca. Il cranio si rompe come un guscio d'uovo, mi sento troppo forte e capisco per la prima volta cosa voglia dire 'essere nutrito'.
Per essere 'abbandonato' da ben sette anni, questo mio appartamento di New York è davvero ben tenuto. La vasca era solo impolverata, come tutto il resto dopotutto. La polvere è un qualcosa che stimo tanto, ricopre ogni cosa, non importa quanto tu ti ci metta d'impegno per toglierla.
Il bagno è la mia base operativa, oggi.
Ci sono cinque cadaveri ora, in questa stanza. Compresa questa poco più che bambina di cui ho ancora i capelli biondi fra le mani. Affondo le dita nel suo cervello, quello che probabilmente non ha mai funzionato, e mi rigiro fra le dita qualche filamento gelatinoso di materia grigia, ammirandolo con le labbra dischiuse. È spettacolare, quasi artistico. Ma il cervello umano non ha granché sapore, così mi sciacquo nella vasca ricolma di sangue, impassibile, e mi lecco le dita, ancora, è così buono, dannazione. Se solo non mi trattenessi lo berrei, ancora e ancora, svuoterei la vasca.
Rifletto un attimo, fisso il viso colmo di cervella e sangue della ragazzina che ho appena ucciso. Quanti anni può avere? Dodici?
Un sorriso mi sorge spontaneo.
È piccola. Aveva tutta la vita davanti a sé. Tutta quella vita.. ora andrà a me. La trascino con me nella vasca, è completamente svestita, dopotutto è ingiusto sprecare tanto sangue che si imprime nei vestiti, troppa roba sprecata.
Sto giocando.
Si nota? Sto giocando.
Mordo il collo morbido della ragazzina, è poco più che una bambina, è bruttina ma forse da adolescente sarebbe fiorita. Nessuno può saperlo.
È buona. In un certo senso, dolce. La sua pelle sa di pergamena e pesche, è un'accoppiata insolita, non l'ho mai incontrata, un po' mi disturba. Non per le pesche. È che la pergamena stona, è amaro come sapore. Arriccio le labbra e le strappo muscoli, vene, i capillari mi si infilano fra i denti, a volte è fastidioso ma ora li accolgo come una liberazione, lei è l'ultima, per oggi è l'ultima, per stavolta basta.
Per una mezz'oretta la spolpo, mischio il suo sangue e le sue interiora nella vasca, trabocca, sento le gocce tintinnare sulle piastrelle del bagno, lambire le ossa e i brani di carne che ho lasciato degli altri ragazzini, sì, sono tutti ragazzini le mie vittime di oggi. Carni giovani, tenere, allenate e non impigrite dagli anni, pelli tese ed elastiche, polmoni rosa ed allenati, stomaci poco rovinati, fegati puri.
È così piacevole. Mi immergo totalmente nella vasca, sento che ancora trabocca, le mie mani sono le uniche a muoversi, buttando fuori dalla vasca le ossa rimaste della ragazzina. Sento delle budella lambirmi le dita e le afferro, e strappo coi denti, ma ingoio sangue, ancora, sento un bruciore in petto e una soddisfazione crescente, è qualcosa.. qualcosa che non ha nulla a che fare con il sesso, è fame, solo fame.
Bevo. Ancora. Mi riempio la pancia, fino a scoppiare, e ci vuole poco, troppo poco. Sorrido, mi tiro su a sedere anche se scivolo sul fondo, il sangue è viscoso. Mi tiro su in piedi, mi sento benissimo, non mi sono mai sentito meglio.
Ma mi viene in mente mia moglie, mi si incrina un attimo il benessere. Avrà sentito tutto attraverso quel collegamento che siamo certi di avere, no? Mi sento meschino, d'un tratto. Ma non l'ha detto lei, che non devo trattenermi? Allargo le braccia. Questo è ciò di cui sono capace. Ho fame. Sono un mangia-uomini, come mi definirebbe uno del piccolo popolo. Solo per questo, avrei la stima delle fatine.
Io sono un mangia-uomini, ora, e lo sono sempre stato.
E non me ne vergogno quanto dovrei.

giovedì 5 dicembre 2013

lacrime di un cielo straniero parte 2

Ecco a voi la seconda parte di "Lacrime di un cielo straniero". Se vi siete persi la prima parte, se la volete rileggere...ecco il link a cui trovarla. Buona lettura. 


"Entrata, vide i corpi dei suoi genitori e dei nonni. Le venne in mente il giorno in cui trovò una bambola con buchi al posto degli occhi, senza braccia e gambe. Allora aveva urlato, ora nessun suono usciva dalle sue labbra. Le ginocchia le cedettero, cadde, come le lacrime che, rotolando sul pavimento, si andarono a mescolare al sangue ancora caldo dei suoi parenti.
Un naso umido seguito da un muso peloso le si appoggiò in grembo. Beo l’aveva seguita, come lei aveva camminato in mezzo a quell’orrore e ora era lì, a darle il suo calore. Si avvicinò con le mani tremanti ai corpi. Doveva coprirli, dar loro una sepoltura, ma come fare da sola? Si avvicinò alla credenza dove la nonna teneva le coperte di lana, le lenzuola e le tovaglie. La aprì e prese la tovaglia delle feste, quella che la nonna metteva a Pasqua, quando dalla cucina arrivava il profumo della krompirusa[1] e del burek[2], che l’anziana preparava pazientemente secondo l’antica ricetta di famiglia, scritta su un quaderno rosso, tenuto gelosamente e accuratamente in un cassetto della madia in cucina. Prese la tovaglia e, appena la ebbe tra le mani, le sembrò di sentire il profumo dei cibi, delle candele alla lavanda che ricoprivano il tavolo. Completamente diverso da quello che aleggiava nell’aria: la puzza di sangue, di cadavere, di morte già la impregnava, rendendola quasi irrespirabile. Aprendo la tovaglia qualcosa cadde sul pavimento. Sofi si chinò e prese l’oggetto: un petalo di rosa rossa, un petalo di quel mazzo di rose che il papà aveva portato da Tuzla per la nonna appena otto mesi prima.
Messo il petalo in tasca, si avvicinò al corpo che si trovava più lontano, quello della mamma sul balcone. Lo osservò e, chinandosi, baciò la madre sulla fronte, le chiuse gli occhi e le tolse la collanina d’oro, appartenuta alla sua bisnonna. La prese poi per le braccia e la tirò verso gli altri tre corpi, li allineò e tolse loro, come aveva fatto per la mamma, un oggetto e infine li coprì tutti con la tovaglia. S’inginocchiò poi accanto a Beo, che aveva osservato quella semplice cerimonia funebre con occhi attenti e, abbracciandolo, disse una preghiera e, come la prima volta, poche ore prima, pianse, pianse fino ad addormentarsi."
MU



[1] Krompirusa: torta salata bosniaca, chiamata "Pita" nella lingua popolare, il cui ripieno è fatto con cubetti di patate.
[2] Burek: torta salata bosniaca, chiamata "Pita" nella lingua popolare, il cui ripieno è fatto con carne macinata.

lunedì 2 dicembre 2013

Riflessi



Sapevo che un giorno l'avrei incontrato.
Sapevo che un giorno l'avrei visto di fronte a me,
spento, immobile.
Sapevo che prima o poi mi avrebbe preso,
trascinato nel vortice dell'ira e della disperazione.
Allungai la mano, per vanificare l'effetto di quella visione;
toccai con le dita le rughe del suo volto, la sua pelle morta.
Dalle orbite, ormai oscure cavità,
potevo avvertire un luccichio, una scintilla di vita,
ricambiata dal sentore di morte che,
indelebile, mi si attaccò prima ai vestiti,
poi al cervello.

Fu la strana luce dei suoi occhi a farmi tornare indietro;
le sue  oscure cavità preannunciavano un vuoto smisurato,
un baratro in cui anch'io, prima o poi, sarei caduta.

Mi presero le vertigini.
Non riuscî a ritrarre la mano da quella invitante oscenità,
da quel delirio con un sorriso.
Le mie dita continuarono a percorrere ogni singola,
cascante piega di quel volto
che si agitava sudato
malamente illuminato dall’ultimo raggio del tramonto.
Con passi lenti e inesorabili consumava con forza
gli ultimi istanti di lucidità,
mentre il rintocco del pendolo, il più bel regalo
della mia giovane nonna, faceva danzare i pigri minuti
nella macabra danza della falce del tempo.

Avvertî fuggire il mio corpo,
risucchiato dalla sua bocca spalancata,
pronta a sorbire avidamente ogni sogno di vita restante.
Soltanto un’ illusione.
Non riuscivo a strappare le mie dita da quella figura!
Così repellente, così magica.

Dalle labbra, contratte ora in una risata silenziosa,
uscì un cavernoso sibilo che mi penetrò nelle orecchie,
devastando quel poco di lucidità che avevo conservato.
Niente da fare.
Non vinsi il magnetismo del suo sguardo.
I miei occhi non potevano nulla contro quella fissità:
più mi perdevo dentro il vacuo sguardo,
meno la spuntavo contro le voraci reti delle sue cavità.

Il ghigno della creatura fu divelto dal più dolce dei sorrisi.
La luce si faceva pian piano più intensa,
avvolgendomi delicatamente nel suo candore;
una dolcissima forza mi attrasse a sé.
Sentî stingere la mia mano intirizzita dalla paura,
ora teneramente accoccolata dentro quella presa sicura;
m’indicò con tranquillità quella che pareva una porta.
Fui costretta a lasciare quella presa.
Tesi le mani avanti, ancora ingorda di salvezza,
desiderosa di trovare un appiglio;
toccai finalmente una superficie solida.
Là mi riposai.

Avevo dimenticato ormai le cavità, la pelle rugosa.
Ora un’energia immensa, vertiginosa,
mi avvolse tra le sue forti braccia.
Mi lasciai andare, perdendo tutto dietro le mie spalle.

Pace.
Questa è l'unica parola che ora mi fruscia nel cervello.
Pace.

Whiff era affetta da un grave disturbo:
soffrì di un invecchiamento precoce.
Aveva 9 anni.
L'ultimo suo anelito di vita
l’ abbandonò davanti all’enorme specchio della soffitta
quella dove si rinchiudeva talvolta,
ma della quale non aveva mai scoperto tutti i segreti.
La madre aveva sempre temuto che sua figlia potesse specchiarsi:
decise così di coprire quella specchiera,
di coprire l’unica persona che la piccola non conoscesse.
Whiff tirò via con forza il pesante drappo nero
steso sopra il vetro antico
per poter vedere finalmente chi lei fosse.
L'ultimo grande desiderio
prima del suo ultimo soffio di vita.