Sapevo che un giorno l'avrei
incontrato.
Sapevo che un giorno l'avrei visto di fronte a me,
Sapevo che un giorno l'avrei visto di fronte a me,
spento, immobile.
Sapevo che prima o poi mi avrebbe
preso,
trascinato nel vortice dell'ira e della disperazione.
Allungai la mano, per vanificare
l'effetto di quella visione;
toccai con le dita le rughe del suo volto, la sua pelle
morta.
Dalle orbite, ormai oscure
cavità,
potevo avvertire un luccichio, una scintilla di vita,
ricambiata dal sentore di morte che,
ricambiata dal sentore di morte che,
indelebile, mi si attaccò prima ai vestiti,
poi al cervello.
Fu la strana luce dei suoi occhi
a farmi tornare indietro;
le sue oscure cavità
preannunciavano un vuoto smisurato,
un baratro in cui anch'io, prima o poi, sarei caduta.
Mi presero le vertigini.
Non riuscî a ritrarre la mano da
quella invitante oscenità,
da quel delirio con un sorriso.
Le mie dita continuarono a
percorrere ogni singola,
cascante piega di quel volto
che si agitava sudato
malamente illuminato dall’ultimo raggio del tramonto.
Con passi lenti e inesorabili consumava
con forza
gli ultimi istanti di lucidità,
mentre il rintocco del pendolo, il più bel regalo
della mia giovane nonna, faceva danzare i pigri minuti
nella macabra danza della falce del tempo.
Avvertî fuggire il mio corpo,
risucchiato dalla sua bocca spalancata,
pronta a sorbire avidamente ogni sogno di vita restante.
Soltanto un’ illusione.
Non riuscivo a strappare le mie
dita da quella figura!
Così repellente, così magica.
Dalle labbra, contratte ora in
una risata silenziosa,
uscì un cavernoso sibilo che mi penetrò nelle orecchie,
uscì un cavernoso sibilo che mi penetrò nelle orecchie,
devastando quel poco di lucidità che avevo conservato.
Niente da fare.
Non vinsi il magnetismo del suo
sguardo.
I miei occhi non potevano nulla contro quella fissità:
più mi perdevo dentro il vacuo sguardo,
meno la spuntavo contro le voraci reti delle sue cavità.
Il ghigno della creatura fu
divelto dal più dolce dei sorrisi.
La luce si faceva pian piano più
intensa,
avvolgendomi delicatamente nel suo candore;
una dolcissima forza mi attrasse a sé.
Sentî stingere la mia mano
intirizzita dalla paura,
ora teneramente accoccolata dentro quella presa sicura;
m’indicò con tranquillità quella che pareva una porta.
Fui costretta a lasciare quella
presa.
Tesi le mani avanti, ancora
ingorda di salvezza,
desiderosa di trovare un appiglio;
toccai finalmente una superficie solida.
Là mi riposai.
Avevo dimenticato ormai le
cavità, la pelle rugosa.
Ora un’energia immensa, vertiginosa,
mi avvolse tra le sue forti braccia.
Mi lasciai andare, perdendo tutto dietro le mie spalle.
Pace.
Questa è l'unica parola che ora
mi fruscia nel cervello.
Pace.
Whiff era affetta da un grave
disturbo:
soffrì di un invecchiamento precoce.
Aveva 9 anni.
L'ultimo suo anelito di vita
l’ abbandonò davanti all’enorme specchio della soffitta
quella dove si rinchiudeva talvolta,
ma della quale non aveva mai scoperto tutti i segreti.
La madre aveva sempre temuto che sua
figlia potesse specchiarsi:
decise così di coprire quella specchiera,
di coprire l’unica persona che la piccola non conoscesse.
Whiff tirò via con forza il
pesante drappo nero
steso sopra il vetro antico
per poter vedere finalmente chi lei fosse.
L'ultimo grande desiderio
prima del suo ultimo soffio di vita.
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