venerdì 29 novembre 2013

LA GOCCIOLINA D' ACQUA


C’era una volta,
In un regno molto lontano, la storia di un piccola gocciolina d’acqua.
La gocciolina, era molto curiosa e passava il tempo giocando.
Lei viveva in un fiume, che nasceva sulla cime di un monte dove freddo e neve erano perenni.
La gocciolina si divertiva a giocare con le altre goccioline, nuotava e sguazzava per tutto il fiume da mattina a sera, pensando solo a divertirsi.
Ma di notte, mentre tutto taceva in un sonno molto lieve, la piccola gocciolina d’acqua invece di dormire si fermava a fissare la Luna <<oh Luna, oh Luna… tu che sei in alto, dimmi com’è il mondo visto da lassù? Oh Luna, oh Luna…. Tu che illumini i sentieri scuri, dimmi com’è la luce vista da lassù? Oh Luna, oh Luna… che sempre taci dimmi com’è il silenzio lassù? Oh Luna, oh Luna cara… ma infondo tu che ne vuoi sapere? Mostri sempre la stessa faccia fin da quando sei nata>>.
La gocciolina riprese a scorrere su e giù per il fiume, sentendosi libera di fare ciò che le pareva.
<<Gocciolina, gocciolina>> pronunciò una voce soave 
<<chi sei?>> rispose la gocciolina, che non sapeva chi la stessa chiamando, infondo dormivano tutti, e nessuno, nessuno mai parlava con lei, era solo una piccola gocciolina d’acqua in mezzo a un fiume.
<<Sono la Luna, gocciolina… mi hai chiamato e son venuta. Oh gocciolina cara, da laggiù non riesci a vedere bene come me. Oh gocciolina, eppure il silenzio lo trovi anche laggiù. Oh gocciolina, tu che mostri sempre la tua felicità, io quassù devo essere un faro, non posso mostrarmi in tutte le mie forme, così da sempre sono costretta a mostrare solo quello che tutti vogliono vedere>>
La gocciolina ci pensò su qualche momento, mentre continuava a nuotare per il fiume.
<<oh Luna, Luna cara ma tu che sei lassù, più in alto di tutti, da dove riesci a vedere il tuo amico Sole, da dove vedi tutti i fiumi e tutte le piccole goccioline d’acqua. Tu che sei così in alto, perché non ti ribelli?>>
<<Oh gocciolina, sei troppo piccolina per capire. Io non posso, non sono capace!>>
<<Piccolina?>> chiese la gocciolina, che non capiva.
<<Si sei piccolina gocciolina, quando diventerai grande e sarai pronta  a lasciare il tuo fiume allora capirai>>.
<<Lasciare il mio fiume?>> la gocciolina continuava a non capire.
<< Si gocciolina, un giorno dovrai lasciare il tuo fiume>>.
<<E perché non sei capace?>> chiese.
<<Perché non l’ho mai fatto, da quando sono nata, giro su me stessa, solo questo posso fare.>>
La gocciolina perplessa, la salutò a continuò il suo tragitto lungo il fiume, salutando i piccoli pesciolini che non dormivano.
<<Ciao pesciolini, neanche voi dormite?>>
<<NO!>> risposero in coro, << Non possiamo, un giorno un pescatore ci prenderà all’amo e non possiamo sprecare neanche un secondo!>>
La gocciolina li guardò come se fosse la soluzione fosse ovvia << Perché non scappate?>>
<<Inutile! Un giorno, prima o poi succederà comunque, è il nostro destino, così come tu un giorno lascerai il fiume>>
<<Lasciare il fiume?>> chiese la gocciolina, che si ricordò della luna, anche lei gli disse la stessa cosa.
<<Esatto, un giorno lascerai il fiume, così come noi abboccheremo ad un amo, è inevitabile>>.
La gocciolina rimase perplessa, li salutò e proseguì lungo il fiume.
<<Ciao!>> disse una roccia sul letto del fiume, <<Ciao>> replicò la gocciolina
<<Cosa ci fai qui? Fermo sul fondo giorno e notte? Senza muoverti mai?>>
<<Sono una roccia, non mi muovo, da quando esisto sono sempre stato fermo. Non posso decidere niente, sono le onde a trasportarmi>>
<<oh!>> fece la gocciolina con un velo di tristezza, pensando che lei si poteva muovere come preferiva.>>
<<beata te cara gocciolina, che puoi nuotare libera. Ricordati di me quando lascerai il fiume>>.
La gocciolina gli sorrise e andò via pensando che anche la roccia gli aveva detto che avrebbe lasciato il fiume.
<<Ciao gocciolina>> un alga la fissava, ondeggiando a destra e sinistra.
<<Ciao alga, perché ondeggi?>>
Chiese la gocciolina.
<< Non sono io, è la corrente che mi fa muovere>>
<<Ah>> esclamò perplessa la gocciolina.
<< Non puoi fermarti un secondo?>>
<<No! Io ondeggio tutto il giorno, e non posso fare altro! Tu sei molto fortunata, un giorno lascerai questo fiume>>.
La gocciolina, che fino ad ora non aveva mai risposto disse <<Oh alga, non solo tu mi dici di lasciare il mio fiume. Ma perché dovrei farlo? Io amo il mio fiume, ci sono le altre goccioline che giocano con me>>
<<Oh gocciolina, tu conosci questo fiume perché è piccolo, e pensi di stare bene, ma ci sono tanti posti da vedere, tanti fiumi su cui nuotare, e tante goccioline da conoscere>>
La gocciolina ascoltava con molto attenzione.
<<Oh alga, ma io sto già bene così, non voglio sapere altro!>>.
<<Gocciolina, non puoi restare il questo fiume per sempre, se ne hai l’opportunità vai via, conosci altre acque, nuota insieme ad altre gocce e poi potrai dire di conoscere il tuo fiume, fino ad allora conoscerai solo ciò che vuoi vedere.>>
<<Oh alga ma ho paura>> la gocciolina salutò l’alga tristemente e continuò a nuotare, fino a che la corrente non divenne così forte che era impossibile tornare indietro. La gocciolina, si trovò a essere spinta da una parte all’altra del fiume, così come la roccia non poteva muoversi, così come l’alga che si faceva trasportare dalla corrente, così come il pesce aspettava inesorabilmente che qualcosa lo prendesse, e come la luna non sapeva come fare.
La corrente la trasportava via, lontano dal suo fiume che tanto conosceva.
La gocciolina chiuse gli occhi, in attesa che qualcosa la salvasse, poi la calma assoluta.
Apri gli occhi, e si trovo come in un fiume, solo molto più grande.
<<Ciao gocciolina>>
<<Ciao a te, dove mi trovo e tu chi sei?>>
<<Anche io come te sono una gocciolina, e ti trovi in un lago>>
<<Oh>> la gocciolina divenne triste << Così alla fine ho lasciato il mio fiume>> e divenne ancora più triste.
<<Non essere triste, anche io tempo fa ho lasciato i mio fiume, se non lo lasciavo non avrei mai conosciuto te>>.
La gocciolina di fiume sorrise. << Io vengo dal fiume,e non voglio essere come la mia amica Luna che non sa come fare, non voglio esse come i miei amici pesci, in attesa di essere presi, non voglio essere come la mia amica roccia, ferma in attesa di essere spostata, non voglio essere come la mia amica alga che si fa trasportare della corrente. Ora sono qui e voglio nuotare in queste acque, voglio conoscere e imparare. Voglio crescere, perché non si smette mai di imparare, solo così potrò tornare nel mio fiume.>>

                                                                       E vissero tutti….

Smoke

Autore: Sydan
Titolo: "Smoke"
Genere: Introspettivo

Se dovessi raccontarti la mia vita, non potrei fare a meno di sbiascicartela in auto, sfrecciando nella notte, con un’amarissima sigaretta tra le labbra, presa tra le dita soltanto per scrollare la cenere. Il fumo inevitabilmente negli occhi, il bruciore che ti fa lacrimare.. l’unico modo per poter piangere, visto che le ultime lacrime le hai perse tempo prima, sulla bara di tua madre. Abbassi il finestrino, un po’ stupito del fatto che quella tua unica compagnia di tre minuti sia bruciata troppo in fretta, un po’ infastidito che il pacchetto sia quasi vuoto in quel viaggio ancora lungo. Guardi lo specchietto retrovisore in cerca di due fari.. nulla. Tiri fuori la mano dal finestrino e lasci cadere il mozzicone, guardando poi quelle scintille rimbalzare nell’aria e nell’asfalto, spegnendosi subito dopo un povero fuoco d’artificio.
Tu e la notte. Quasi avresti voglia di spegnere e farti guidare dalla luce di un accendino.. è pur sempre luce, no? Con quel barlume di visibilità ti accendi un’altra paglia e aspiri quel fumo amaro che brucia la gola, te la grinzisce, te la inaridisce. Lei ha sete, tu la inondi di caldo vapore tossico; lei reagisce cercando di mandarlo fuori, squassandoti i polmoni, tu raccogli i tuoi nemici e li sputi fuori dal finestrino, facendoli spazzare dal vento.
Ora non hai altro da fare che guidare, pensare, fumare.
Correre su una strada libera, quasi ipnotizzato dal rumore del motore, dà un gran senso di pace, legato ad uno strano senso di eccitazione della fantasia, che ti fa galoppare col pensiero e dove tutto viene deformato. Così tutto il fumo che spingi fuori dai polmoni assume le fattezze del volto della tua ultima donna e svanisce con la stessa velocità con cui lei ti è sfuggita dalle mani, proprio quando iniziavi a pensare che quella sarebbe stata l’ultima. Invece in quel preciso istante avresti voglia di smettere, cos’ come pensi che sia doveroso lasciare da parte la sigaretta; alla fine compri sempre un nuovo pacchetto, magari di quelle più forti, perché, pensi, così riduci le sigarette e forse questa è la volta buona che riesci a smettere.
Anche le donne, le tue donne, puoi scegliere: quelle super light, quelle light e quelle panforti. Poi ci sono anche i sigari, che non si aspirano ma si gustano e basta, oppure quelle fatte da sé che giri come vuoi e che puoi riempire quanto ti pare, con o senza filtro. Emily era certamente una senza filtro, una di quelle che fanno male e basta, quelle che ti distruggono la gola ancora prima dei polmoni, ma che aspiri fino alla fine perché, forse, la prossima boccata è migliore, forse perché sei talmente avaro da non riconoscere di aver sbagliato anche questa volta e vuoi fumare fino alla fine soltanto perché l’hai pagata e quel denaro, per quanto sia stato mal speso, non vuoi che vada sprecato.
Emily l’hai trovata quasi per caso.. il primo pensiero che i tuoi neuroni hanno elaborato è stato una sincera ammirazione per il suo corpo e i suoi seni, non troppo nascosti alla vista; la sua malizia si confondeva con la sua spudoratezza, la timidezza dei suoi occhi con la sorprendente fantasia e sfrenatezza una volta che te la sei portata a letto senza che nemmeno glielo chiedessi. Due mesi di fuoco. Ma il sesso per se stesso brucia ancora più velocemente di questa buonissima sigaretta, così butti via il pacchetto, fumi l’ultima di mala voglia e cerchi ancora una volta di smettere.
La strada è ancora lunga. Apri un’altra piccola scatoletta dimenticata dentro l’auto e scopri che c’è soltanto qualche traccia di tabacco; innervosito la schiacci tra le dita e la butti con furia dal finestrino. A mezzo chilometro da dove ti trovi c’è un autogrill. Oltre a comprarti altro fumo amaro puoi approfittarne per riempire il tuo stomaco. La sigaretta non ti sazia, anche se a volte è utile per contenere la fame.
Emily aveva il frigo vuoto e lei aveva fame d’altro.
Pochi minuti dopo svolti in un stradina mal asfaltata, sotto la grande e luminosa insegna che annuncia l’ingresso del ristorante, facendo fischiare le ruote solo per sentire qualcosa di diverso dal suono del motore che decelera. Parcheggi un po’ come ti và; esci dall’auto e ti guardi attorno: altre due macchine posteggiate un poco più in là, nessun altro a farti compagnia questa notte. Con passo svelto varchi la soglia dell’autogrill. I tavoli deserti; appoggiati al bancone due uomini e una donna, davanti a loro una cameriera con un’espressione spenta e gli occhi stanchi. Ti avvicini al banco e getti uno sguardo sui tuoi conviviali. I due uomini potevano avere una certa età, entrambi con la fede al dito; la donna stava seduta in mezzo a loro. Capelli lunghi e ricci, biondi, la faccia truccata pesantemente. Guardai meglio. Quella era uno spinello. Uno di quelli fumati di nascosto, per la voglia di trasgredire, per la noia più totale. Un fumo che brucia forte, ti sballa per un po’, ti fa sorridere all’idea di poter sorridere, finalmente; dopo ti lascia soltanto la tristezza di non saper più sorridere e la vergogna dei tuoi anni. Soprattutto quando quella donna, in realtà, è un uomo.
Ordini l’hamburger peggiore che tu abbia mai mangiato, almeno ti servirà a tappare quella voragine che hai al posto dello stomaco. I tuoi commensali pagano, si abbracciano e vanno via; la scia di profumo della donna ti disgusta e quasi ti viene da vomitare! Putrido e abbondante, come la peggiore roba che puoi trovare per strada. Pensi e speri di non doverti mai ridurre così per una stupida fumata, supponi che il tuo fumo lo controlli ma poi, pensandoci bene, anche quelle sigarette che stai per comprare sono la prova che, forse, una volta riuscivi a controllarti. Prendi la tua dose, saluti e non aspetti nemmeno la risposta per uscire. L’aria umida della notte ti appiccica la maglietta addosso, quasi ti blocca il respiro come quando da giovane ti ubriacavi di sigarette, sudavi freddo dopo la terza, quasi consecutiva alla seconda, ti sembrava di svenire, la pressione colava a picco e vedevi tutto offuscato e il mondo al rallentatore, tu e lui.. ti pare che quella sarà l’ultima occhiata che gli darai, vuoi smettere, vorresti smettere e invece ti ritrovi con la quindicesima sigaretta, quasi un intero pacchetto fumato in tre ore, solo perché non c’è di meglio da fare.
Rientri in carreggiata con l’auto, sigaretta in bocca, mani sul volante; il piede spinge sull’acceleratore, il gesto automatico di portare la mano sul cambio spingendolo verso le marce più alte. I fari non fanno in tempo a illuminare la strada che percorri, come le tue labbra non fanno in tempo a stringere nuovamente il filtro e la sigaretta scivola e cade giù. Una scia arancione, che sembra quella di una stella cadente, preannuncia le veloci fiamme che si sviluppano rapidamente sul tessuto sintetico dei tuoi pantaloni. Cerchi di frenare, di evitare l’urto, mentre tenti di spegnere le fiamme che ti bruciano le carni delle gambe, ma vai sempre e comunque a sbattere contro qualcosa. Al che ti ritrovi accartocciato, una volta che il mondo ha smesso di girare non senti più nessun arto; il fuoco ti brucia la pelle, la consuma, ma non provi più nulla. Speri che qualcuno ti aiuti, ti accorgi che sei nato solo e morirai solo.
L’ultimo pensiero che ti passa per la mente è l’immagine di un boia che avanza verso di te e tu gli chiedi un’ultima sigaretta. Ti fermi. Pensi. Forse questa è la volta che smetterai definitivamente.
La tua grassa risata si perde tra le fiamme, in questa dolce notte d’estate.

giovedì 28 novembre 2013

In auto, all'alba.


In auto, all'alba.

Autore: ~Zewik
Rating: Giallo. (lievi scene a contenuto sessuale)
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life.
Tipo di coppia: Het.
Note: Lemon, Lime.
Avvertimenti: Incompiuta.
Completa: Sì.

«Andrej...» un sospiro, vapore sul vetro.
«Dimmi», la sua voce fredda nell'abitacolo. La ragazza socchiuse gli occhi e lo fissò nella penombra, valutando le parole da usare.
«Sei fiacco stanotte...» mormorò, leccandogli lascivamente un braccio. Lui non rispose e si limitò ad andare avanti, per la sua strada, nonostante lo facesse con poco sentimento e pochissima voglia. Si vedeva che ciò che lo av
eva condotto lì, quella sera, era semplice bisogno, e non desiderio come le altre volte. Faceva male, ad un certo punto, e Elina si scostò appena da lui quando il ragazzo si appoggiò al sedile dell'auto per fissarla.
Era enigmatico, Andrej, e lei l'aveva capito dalla prima volta in cui l'aveva visto. Tutti i clienti la guardavano vogliosi, lascivi, quasi laidi, lui no. Lui la osservava, la studiava, come.. come una persona. Si stupì nel fare questa considerazione, e si stupì del fatto che si stupiva se era considerata qualcosa di più di un oggetto di passione.
«Scusami» mormorò il ragazzo, senza distogliere lo sguardo da lei -anzi, no- dai suoi occhi. Lei era completamente nuda e lui cosa guardava? Gli occhi. Non era un ragazzo da puttane, quello. Non lo era proprio. Era un ragazzo che andava a puttane per non ferire nessuna ragazza che non voleva un cazzo fra le gambe, ma un cuore in mano. Era quel tipo di ragazzo lì, forse.
«Andrej, perché chiami sempre me? Ci sono Clara, Jen-».
«Tu sei la più gentile».
La risposta la spiazzò completamente e si dovette vedere, perché lui sorrise appena. Dolorante, si sfilò da lei ed Elina allungò una mano verso di lui, stringendo le gambe. Lui l'aiutò a sedersi e frugò nel bagagliaio, sporgendosi oltre il sedile. Le porse la sua borsa e anche lui afferrò un paio di jeans dalla propria, osservandola mentre indossava dolorante almeno la biancheria intima. Il cielo non era più nero, ormai, e si tingeva già di bluette, un colore in cui le stelle paradossalmente sembravano splendere di più che in quella opprimente oscurità totale.
«Andrej».
Il ragazzo allacciò la cerniera e si voltò verso di lei, mentre da sotto il sedile estraeva una pistola. Lei si ridistese, fissando l'arma e poi il viso del ragazzo, che le lanciò un'occhiata indifferente.
«Come sarebbe a dire che sono la più gentile?» chiese Elina, passandosi una mano fra i capelli.
«Ti spiego. Tu mentre facciamo sesso non gridi con il semplice intento di incitarmi, anche se non sono un granché. Oggi ne era la prova. Non hai gridato; ti sei solo lasciata sfuggire qualche gemito quando non pensavo ad altro e lo sentivi, e questo lo apprezzo più di qualche "Oh mio dio, sì!" gridato ai cosiddetti punti giusti. Inoltre Clara, Nancy e quelle altre sono sul campo da secoli. Tu ci sei da due anni, sono stato uno dei tuoi primi clienti. Sei ancora più che altro innocente... e si sente. Appena ci vediamo non mi chiedi "Oggi cosa vuoi fare?", ma "Tutto bene?". Non mi tratti da subito come un cliente» disse il ragazzo, passandosi anche lui una mano fra i capelli spettinati, e lei si sedette di nuovo, carezzandoglieli appena.
«Sono lisci..» mormorò, assorta, tastandone la qualità fra le dita. Lui sorrise e lei strinse un po' le gambe, era incredibile quanto un sorriso.. no, non doveva pensarci. Cos'aveva detto lui? Era gentile. E poco professionale. Ecco, bè, si sentiva esattamente così: poco professionale.
«Mi piace il tuo sorriso» aggiunge Elina, chiudendo gli occhi, ma prima che lui scomparisse dalla sua vista poté vedere il suo sorriso mutare in un'espressione seria. «Quindi penso..».
«..che non dovremmo più vederci» concluse lui, e lei riaprì gli occhi; anche lui aveva chiuso i suoi, forse nel pronunciare la frase. Le si riempirono gli occhi di lacrime, ma solo perché lui non poteva vederla. Le occultò stropicciandosi gli occhi con il dorso delle mani e si sforzò di sorridere. Ma c'era una specie di groppo in gola che improvvisamente esplose non appena gli angoli della bocca le si sollevarono, e singhiozzò.
Il rumore provocò una reazione immediata da parte del ragazzo, che aprì gli occhi e si voltò di scatto verso di lei, fissandola mentre si irrigidiva man mano. La sua espressione s'incupì e la mano rafforzò la presa sul calcio della pistola; Elina pensò che stesse per sparargli e, con un sorriso amaro fra le lacrime, pensò che forse era meglio così. Non era brava come figlia, non era brava come puttana, non era brava in niente, quindi forse era meglio finirla così e non darne notizia a nessuno, che non era buona a nulla.
E invece no. Invece la baciò. Si buttò su di lei, lasciando la pistola sul tappetino sotto il sedile, e la baciò. Le sfilò le mutandine e lei gli slacciò i pantaloni e fecero l'amore, stavolta sul serio, come le altre volte, in cui lui si era innamorato del suo corpo e lei del suo modo di fare sesso, così simile al far l'amore. Ma forse erano punti di vista: lei non aveva mai fatto all'amore. Quindi forse credeva solo di farlo. Certo era che un sesso simile non l'aveva mai fatto né provato né visto; era far l'amore e non c'era dubbio, per lei era così. Durò poco, ma per lei tutta la notte poteva sintetizzarsi in quello scambio di baci e carezze e possesso, quei quindici minuti scarsi d'amore potevano riempirle la vita per anni, e basta. Si ritrovò a pensare scioccata che tutti i baci, i dannati baci dati in quella insulsa vita, non potevano sostenere il confronto a quella lingua sottile che le solcava labbra e denti, s'intrecciava alla sua. Eppure, sapeva che doveva finire non appena era iniziato. Lentamente si abbandonò al sonno, con le lacrime agli occhi e le dita molli dal piacere, ignorando il sole che faceva capolino dal finestrino dalla parte di Andrej.

E Andrej le rinfilò gli slip e si riallacciò il jeans, con un mal di testa lancinante che gli urlava "Cosa stai facendo?". Afferrò la pistola da sotto il sedile e, con un sorriso amaro, se la puntò alla tempia; si diede uno schiaffetto sul viso e se la puntò in bocca, sul palato, poi ancora scosse la testa e se la mise sotto la gola, quasi bloccandosi il respiro, e si diede del codardo con un sospiro. Dolorante, aprì il finestrino dell'auto e guardò il sole sorgere e illuminare lui ed Elina, che giaceva scompostamente, madida di sudore, sul sedile accanto a lui.
Cosa stava facendo? Era una bella domanda.
Si disse che forse il suo talento naturale non era nessuno di quelli che aveva coltivato ed abbandonato, né quello che si ostinava a portare avanti: forse il suo talento proprio, fine a se stesso, era l'amare, l'amore.
Non era possibile che dovunque andasse riuscisse a trovare un'infelicità diversa che lui riusciva a colmare, quando il suo lavoro ne causava altrettanta e forse di più.
Lui non aveva bisogno di colmare infelicità.
Lui aveva bisogno di immergersi in una donna a tal punto di non ritrovarsi più, al punto di perdersi e di doversi ricostruire daccapo, solo per essere degno di quella donna.

Non aveva bisogno di tutti gli amori del mondo.
Gliene bastava uno.
Ma che fosse quello giusto.

Zenzero

Zenzero


«Papà?».
La luce che entrava dalla finestra socchiusa quasi danzava sui capelli rosso fiamma della bambina che in quel momento lo stava guardando imbronciata, sovrastandolo.
«Ah.. merda».
L’uomo si sedette di scatto, mentre la bambina alzava gli occhi al cielo.
«Sono già le sette!» lo rimproverò con la sua vocina acuta, parecchio arrabbiata. Aidan sorrise appena, sorridendo, e scosse il capo mentre le carezzava i lisci capelli rossi; per qualche istante si perse nei suoi occhi verdi, uguali a quelli della madre, poi sorrise un po’ di più, alzandosi dal letto.
«Cosa vuoi per colazione?».
La bambina gli trotterellò dietro, tentando di tenere il passo con quelle lunghe gambe, e si arrampicò su una sedia della cucina, sorridendo timidamente.
«Pancakes!».
«Arrivano» sorrise l’uomo, passandosi una mano fra i capelli neri e sbadigliando: mise in mezzo l’occorrente e in una ventina di minuti era riuscito ad accontentare la figlia, che gli sorrise raggiante mentre prendeva il primo boccone. «Allora... oggi è il primo giorno di scuola, vero? Sei nervosa?» mormorò lui, sorridendo e sedendosi accanto a lei. L’uomo sbocconcellò una fetta di pane tostato e la bambina rovesciò il sorriso all’ingiù.
«Mm» mugugnò, per niente soddisfatta.
«Non vuoi andarci?».
La bimba lo scrutò attentamente, come se lo stesse sondando per carpirne i pensieri.
«...significa che posso non andarci?» chiese speranzosa, prendendo il secondo boccone e continuando ad osservarlo con aspettativa. Aidan rise piano.
«No».
«Oh» Enya ritornò a fare un faccino depresso a cui l’uomo non seppe resistere, e le baciò la fronte.
«Dai, non sarà così terribile, vedrai. Ti divertirai e imparerai tante cose nuove!».
La bambina sbuffò, incerta se credergli o no, e lasciò la colazione a metà mentre scendeva dalla sedia e sgambettava via in camera sua. L’uomo la seguì, apprensivo, e la trovò in bagno che si era messa in piedi sulla sedia per lavarsi: sorridendo, le si affiancò e si lavò anche lui, togliendosi via la polvere del proprio lavoro notturno.
La vestizione fu difficile e travagliata: Enya non era mai contenta di quello che le proponeva e quando indossava quello che le piaceva cambiava immediatamente idea, arrivando anche a scoppiare a piangere fra le braccia del padre, che la tranquillizzò con parole dolci e sicure.
«Sarai bella con qualunque cosa addosso, Enya».
«Non è vero!».
«E invece sì.. perché tu sei la mia bellissima Enya. Non è vero?».
«Sì.. sono bellissima?».
Quegli occhioni verdi spalancati erano un balsamo per la sua anima travagliata, e Aidan non poté fare a meno di sorridere per non far uscire le lacrime che gli pungevano gli occhi: Enya era così simile ad Alexandra...
«Sì, lo sei davvero».
Un sorriso timido si riaffacciò sul suo visino minuto e Aidan la vestì per l’ultima volta, facendole indossare un vestitino verde pastello che la faceva sembrare una bambola, dato che legava con i suoi occhi in un modo particolare.
Dato che la scuola elementare era vicina, Aidan decise di fare la strada a piedi: prese per mano Enya, che scrutava il vicinato con ansia, e si mise a parlarle di come a settembre il tempo fosse ancora bello per il mare e di come ad ottobre si sarebbe levato un vento fresco che avrebbe reso impossibile fare il bagno. Enya si limitò ad annuire piano: ricordava i loro tre giorni di mare, si era divertita e l’acqua le era sembrata il suo elemento naturale.. cosa avrebbe dato per ritornare lì, in quella calma liquida e silenziosa! In qualche modo il pensiero del mare riuscì a calmarla, e si accorse che suo padre si era chiuso in un silenzio misterioso: gli tirò piano la mano e lui la guardò con gli occhi azzurro chiaro, assente.
«Papà?».
«Sì?».
«Cosa farò a scuola?».
Il pensiero, chissà com’era, non la intimidiva più così tanto: era curiosa, ora, e voleva sapere cosa la attendeva. Aidan sorrise.
«Ci saranno altri bambini, più o meno della tua età, e conoscerai la maestra...».
«Maestra?».
«Sì. È una persona adulta che deve prendersi cura di voi e insegnarvi delle cose, come..».
«Leggere e scrivere?».
«Sì. Tu sai già leggere, quindi non ti spazientire se andrete un poco lenti all’inizio, capito?».
Enya sorrise raggiante.
«Capito! Quindi sarò la più brava della classe!?».
Aidan rise piano. Enya l’aveva notato: suo padre non rideva sguaiatamente, in modo rumoroso.. anzi, si poteva dire che lui quasi stesse attento a produrre il minimo rumore. Era un atteggiamento strano, ma l’aveva abituata al fatto che il silenzio era piacevole, non era un vuoto da riempire ma anzi, in esso si potevano nascondere tante cose.
«Non lo so, Enya... Può darsi che qualcuno dei tuoi compagni sappia già leggere e scrivere, come te, oppure no.. lo saprai fra poco, in ogni caso, no?».
«Mm» mormorò la bambina: la sua attenzione si era focalizzata sull’enorme edificio di mattoni rossi che li sovrastava. Quell’edificio le piaceva poco, anche se aveva farfalle e fiori colorati sulle finestre questo non lo rendeva meno minaccioso. «Quando inizia?».
Suo padre diede una scorsa al telefono cellulare.
«Fra qualche minuto. Ti devo fare delle raccomandazioni, piccola mia» disse, accovacciandosi di fronte a lei. La bambina evitò il suo sguardo: sul porticato della scuola c’erano tanti altri bambini, soprattutto con tante donne.
«Papà...». L’uomo le carezzò la guancia e lei lo guardò titubante. «Cosa ci faccio qui?» mormorò lei, a disagio.
«Ci sei... e ci sarai. Piccola mia, non avere paura.. qualunque cosa succeda tu me la dici e vedremo se possiamo risolverla, va bene? Certo, dovrai fare molte cose da sola, ma io sarò sempre accanto a te... voglio che questo ti sia chiaro».
«Lo è» mormorò Enya: non avrebbe sopportato che qualcun altro si occupasse delle sue cose, tanto che le dava fastidio persino essere vestita da suo padre e, lentamente, stava imparando ad allacciarsi le scarpe da sola.
«Non rispondere male alla maestra.. e nemmeno ai tuoi compagni. Non dar loro retta se fanno confusione, non cacciarti nei guai, va bene?».
Enya annuì forte e le porte della scuola si spalancarono: lei si girò di scatto, spaventata, e i suoi capelli rossi rifletterono la luce del sole, mandando bagliori. Aidan si alzò e le carezzò il capo, mentre la accompagnava dentro: dopo qualche minuto suonò la campanella e lui le lasciò la mano, sorridendole.
«Vai, la tua maestra è quella lì» le indicò una donna con i capelli biondi e dall’aria materna.
«Somiglia a River» mormorò lei, colpita, e suo padre si irrigidì appena.
«Sì, un poco. Ora vai, piccola, cerca di stare bene... ti verrò a prendere alle quattro».
«Così tardi!» gemette la bambina, nuovamente ansiosa, ma a quel punto il padre la spinse verso la donna, che le sorrise e vigilò anche sugli altri bambini; ed Enya si sentì più sola che mai.

Enya era silenziosa, e Aidan non aveva realmente voglia di sentire la sua voce dirgli cose che già sapeva: l’avevano presa in giro, o maltrattata, o spintonata, e lei non voleva aiuto per queste cose ma anzi, voleva risolverle da sola.. o forse stava dando troppe cose per scontato? Tamburellò le dita sul volante, grattandosi una tempia con irritazione, e senza distogliere lo sguardo dalla strada le diede un’occhiata veloce: pallida e piccola, rannicchiata sul sedile accanto a lui, sembrava scomparire nel vestitino verde.
«È andata così male?» si arrischiò a chiedere piano, ma nonostante avesse avuto il tatto di parlare a bassa voce la bambina sussultò come se avesse urlato: non era un buon segno. Enya si schiarì la voce.
«Uhm» borbottò, senza volergli mentire ma senza volerne parlare. Aidan storse le labbra e sorrise appena.
«Me lo fai un sorriso?» le chiese, per alleggerire l’atmosfera. La bambina aggrottò la fronte e guardò fuori dal finestrino.
«Cos’è una mamma?» chiese, con un filo di voce.
Mancò poco che Aidan finisse contro un albero, nel dirigersi verso la spiaggia; avevano il loro rito, loro due: il pomeriggio mollavano qualsiasi cosa stessero facendo e andavano sulla spiaggia, a guardare il mare. L’uomo cercò di recuperare la calma, ma ormai Enya aveva notato il fatto che si era irrigidito sul sedile e stringeva convulsamente il volante; fortunatamente, erano giunti alla loro meta. La bambina non si fece sfuggire nemmeno una mossa del padre e, quando lui le aprì la portiera dell’auto, gli prese timidamente la mano.
«Sei arrabbiato con me? Non dovevo chiedertelo?» chiese con un filo d’ansia nella voce, e l’uomo abbassò lo sguardo in modo vacuo.
«Ma che dici? No, no, non sono arrabbiato con te..» mormorò lui, stringendole forte la mano, così tanto che le fece un po’ male.
«E allora cos’hai? Non ti senti bene?» chiese ancora lei, se possibile più in ansia. Aidan sorrise appena.
«No.. voglio parlarti di una cosa».
La bambina tacque, non sapendo cosa dire e non essendo sicura di voler sapere cosa il padre volesse dirle, e lo seguì trotterellando sulla spiaggia, fino alla linea disegnata dalla battigia. Lì, suo padre si sedette e si tolse le scarpe, affondando i piedi nella sabbia: lei lo imitò, avendo cura di sistemarsi il vestito sotto il sedere per non riempirsi di sabbia le gambe.
«Sai, Enya.. ogni essere vivente ha un ciclo naturale» cominciò l’uomo, in tono malinconico.
«Un ciclo?» mormorò la bambina, tirandosi le ginocchia al petto e guardando l’orizzonte che si confondeva fra cielo e mare.
«Sì... ognuno di noi nasce, cresce, e poi, un giorno.. muore» mormorò Aidan, socchiudendo appena gli occhi, abbacinato dallo scintillio delle onde davanti a loro.
«Muore» ripeté lei con tono piatto. «Cosa significa?».
«Significa che quella persona non vive più.. il suo corpo perde vita, e la sua anima sopravvive solo in quelli che ricordano quella persona» mormorò lui, con tono più dolce.
«E dove finisce il suo corpo?» la bimba si voltò verso di lui, sondandolo attentamente con lo sguardo. Lui sorrise appena.
«Ovunque venga messo, quel corpo diventerà nutrimento per il mondo. Ci si riunisce con il tutto, si diventa il tutto».
Enya si sentì sollevata, senza sapere un perché.
«Oh.. mi sembra un buon modo per lasciare il corpo. E tutto il resto?».
Aidan si voltò verso la bambina, aggrottando le sopracciglia.
«“Tutto il resto”?» chiese, confuso. Enya annuì piano.
«Sì.. quello che mi fa sentire triste o felice. O anche quello che mi fa piacere i pancake. Quello non è il corpo.. è qualcos’altro, no? Tutto il resto oltre al corpo» mormorò lei, impacciata. Aidan sorrise e sembrava sollevato.
«Oh.. l’anima, intendi».
«Si chiama così? Lanima?».
«Anima, sì, si chiama anima. È ciò che ti rende Enya.. ciò che mi rende Aidan».
«Ma tu sei papà».
Aidan rise piano e Enya sorrise: gli piaceva sentir ridere suo padre, era segno che andava tutto bene... aveva imparato a sue spese che se lui non rideva per troppo tempo, c’era da preoccuparsi.
«Il mio nome è Aidan, però».
«E dove finisce l’anima?» mormorò Enya, interessata. L’uomo alzò lo sguardo al cielo, tentato di citare un famoso cartone animato, ma poi sorrise.
«Nel tutto, anche lei».
«Non capisco..» mormorò lei, stropicciandosi gli occhi.
«Non fa niente.. sei piccolina, piccola mia» mormorò lui, attirandola a sé in un abbraccio. La bimba si rifugiò sotto il suo braccio, appoggiando la testa sulle sue gambe, e restarono entrambi a fissare il mare per un po’, senza parlare più.
«E la mia mamma è morta?» mormorò lei dopo un po’. Sentì i muscoli del padre irrigidirsi tutto attorno a lei, come era successo in macchina, e come un lampo la comprensione arrivò: non era rabbia, come aveva ipotizzato, ma dolore, puro e semplice dolore.
«..sì, Enya, poco dopo la tua nascita» mormorò lui, carezzandole i capelli rossi.
«E perché?».
«Non importa. Tu sei qui».
«A scuola hanno tutti una mamma» sussurrò lei, mentre la prima lacrima le oltrepassava il naso e finiva sui pantaloni di suo padre, su cui strofinò il viso per non farsi vedere piangere.
«Ti hanno presa in giro?» mormorò lui, intenerito e malinconico alla vista della propria bambina così desolata. Lei singhiozzò, in una maniera quasi adulta, quasi dignitosa, ma poi iniziò a piagnucolare in modo degno di una bambina, e Aidan la strinse forte a sé, sollevandola dalla sabbia.
«Mi hanno chiamata Zenzerooo»* pigolò lei, disperata, singhiozzando e piangendo forte come se fosse appena ruzzolata giù per un burrone, e il padre la strinse forte e la cullò contro di sé per un po’, fin quando non si fu calmata abbastanza da udire la sua risposta.
«Ma sì, tu sei la mia Zenzerina» mormorò lui, scostandole i capelli dal visino, e lei si stropicciò gli occhi, solo per guardarlo malissimo, con un evidente broncio e le guance bagnate. «La mia piccola testa rossa»* mormorò lui, sorridendo dolcemente. Enya sorrise piano e si strinse a lui, accoccolandosi contro il suo petto.
«Come si chiamava la mamma?» mormorò lei dopo un po’, per vincere il sonno che la stava portando via.
«Alexandra» soffiò lui, stringendola appena più forte.
«Amavi tanto la mia mamma?» sussurrò lei, e Aidan fece un sospiro che aveva un che di tremolante.
«Sì, immensamente. Almeno quanto amo te» mormorò l’uomo, chiudendo gli occhi per impedire alle lacrime di uscire.
«Tu mi ami?» chiese lei, sorpresa, aprendo gli occhioni verdi e fissandolo. Aidan ridacchiò e la strinse più forte a sé.
«Ovvio che ti amo. Sei mia figlia.. tutti i genitori dovrebbero amare i propri figli».
«E la mamma mi amava?» mormorò lei, guardando il mare e bevendo ogni singola parola come se fosse acqua e lei stesse morendo di sete.
«Certo, immensamente anche lei».
«E allora perché se n’è andata?».
Aidan sussultò e le lacrime uscirono senza che lui potesse farci nulla.
«Lei.. non è stata colpa sua. Lei non voleva andarsene.. lei voleva restare con noi, per sempre» mormorò lui, piangendo silenziosamente. Enya sentì il tremore che lo animava e sollevò di nuovo lo sguardo, stupendosi nel vederlo piangere: suo padre, l’uomo impenetrabile che faceva tutto da solo.. stava piangendo. D’improvviso si vergognò molto per avergli provocato quel dolore e si fece piccola sul suo grembo, appallottolandosi come un riccio.
«Non volevo farti male..» sussurrò, ricominciando a piangere anche lei.
«Non me l’hai fatto, piccola mia, è solo un dolore troppo grande, sono passati solo sei anni.. lasciami soffrire, amore mio» mormorò lui, baciandole piano la testa rossa, e lei sollevò lo sguardo senza capire cosa volesse dire.
«Lasciarti soffrire?» sussurrò, colpita.
«Ognuno di noi elabora il dolore come può» mormorò lui, rimanendo con le labbra appoggiate sulla sua testa.
«Oggi mi hanno tirato i capelli» Enya si lisciò i lunghi capelli rossi che, lisci, le cadevano sulle spalle, quasi con fare protettivo. «Io li ho spintonati e la maestra mi ha messo in punizione».
«In quanti erano?» chiese lui, aggrottando la fronte.
«Cinque» confessò lei, piena di vergogna.
«E li hai spintonati tutti?».
«Solo due. Gli altri li ho picchiati».
Aidan restò a fissarla senza parole e Enya arrossì.
«I miei capelli non si toccano» cercò di giustificarsi, come se fosse una cosa ovvia, e il padre scoppiò a ridere. La bambina rimase sbalordita: mai lo aveva sentito ridere così forte e così di gusto, ma forse dipendeva dal fatto che lì nessuno poteva sentirlo.. se non lei. E lei prese quella risata come il più grande regalo che il padre le avesse mai fatto, quella risata era solo per lei, e lui aveva deciso di farla sentire solo a lei.
«Ti sei battuta con cinque bambini! E hai vinto!» rise lui, evidenziando la cosa. Enya non capiva.
«E allora?».
«Non è mica una cosa da tutti i giorni!».
«Non mi toccheranno più i capelli almeno» commentò lei, torva, lisciandosi ancora i capelli. L’uomo rise di nuovo, stavolta piano come al solito, e le fece cenno di rimettersi i sandali. La bambina eseguì impacciata, mentre anche il padre si infilava calzini e scarpe, e quando entrambi furono in piedi si presero per mano.
«La mamma è ancora viva, papà?» mormorò poi lei, prima di salire in macchina. Aidan non ebbe bisogno di pensarci: sollevò gli occhi azzurri sulla figlia, aprendole la portiera della macchina, e sorrise.
«Sì, Enya. Lei vive in me e nei miei ricordi» mormorò, allacciandole la cintura. «E vive in te.. hai i suoi stessi occhi, i suoi capelli. Era bella come te» disse, baciandole il naso. La bimba fece una smorfia, ma sorrise: forse dopotutto non era male essere Zenzero.


­––––––––––––––––
*Zenzero: Dal momento che Aidan e Enya vivono negli Stati Uniti, parlano inglese. Zenzero, in inglese, è “Ginger”, che è anche uno dei ‘soprannomi’ dati alle persone con i capelli rossi. In questo caso, dunque, i compagni di Enya la prendono in giro perché ha i capelli rossi, chiamandola Ginger.

*Testa rossa: Anche questo è una parola inglese: “Redhead” (lett. “Testa rossa”) è il nome con cui vengono indicate le persone con i capelli rossi. Questo nome è meno offensivo di “Ginger”, pur identificando la stessa tipologia di persone.

lacrime di un cielo straniero parte 1

Ecco la prima parte di uno dei racconti che ho scritto. E' nato dopo il mio viaggio in Bosnia, in cui ho conosciuto la realtà terribile della guerra e del dopoguerra, realtà che Sofi ha visto e vissuto, viaggiando verso quella libertà che chissà se arriverà.

"Sofi era entrata nella stalla. Fuori un cielo grigio piangeva tutte le sue lacrime, scagliava i suoi fulmini. Talvolta il bosco era illuminato da un lampo, ora vicino, ora lontano.
Erano tre giorni ormai che era scappata da casa. Le forze bosniache erano entrate nel villaggio, avevano distrutto ogni cosa, avevano ucciso sotto i suoi occhi centinaia di persone. Anche la sua famiglia era stata sterminata, nonno Nemanian, nonna Nada, papà, mamma…; lei si era salvata perché la nonna, come se sentisse qualcosa, nonostante la faccia contraria del capofamiglia, l’aveva mandata nella stalla nel bosco a dar da mangiare a Beo, l’agnellino nato da poco. E proprio lì Sofi aveva visto tutto, ma soprattutto aveva sentito. Sentito gli spari, le urla e poi il quasi doloroso silenzio. Anche gli animali sembravano aver capito e si erano zittiti. L’agnellino le venne vicino, il suo pelo raccolse le lacrime che calde, scendevano dagli occhi di Sofi. Non aveva il coraggio di tornare verso casa. E se erano ancora là? Le domande che più le premevano in testa, che pulsavano come una ferita infetta, rimbombavano dentro di lei: “Chi erano? Perché?”
Fino ad allora nessuno le aveva parlato della guerra. Era vissuta in una bolla, lontana dalla realtà, in un mondo che i suoi genitori avevano costruito e dipinto con colori felici, allegri, volontariamente lontani dalla realtà, solo per lei, per farla vivere lontana dagli orrori della guerra.
Quando se ne erano andati da Tuzla per raggiungere i nonni in campagna, le avevano detto che nonna Nada non era stata molto bene e il nonno non poteva gestire casa e orto da solo. La verità però era un’altra: a Tuzla stava arrivando la guerra. Poco prima della loro partenza alcuni giovani avevano sparato a una casa, quasi alla fine del paese, sulla strada che portava in aperta campagna. Erano dovuti passare di là e Sofi aveva messo le sue piccole dita di bimba dentro ai fori dei proiettili, chiedendo al papà cosa fossero. L’uomo, con le lacrime agli occhi, le rispose che probabilmente stavano mettendo un’insegna o dei tubi. Sofi si era accontentata di quella risposta, ma in quel momento, camminando per le vie del paese che l’aveva accolta, capì che quella risposta datale dal padre qualche mese prima non era la verità.
Raggiunse la casa dei nonni o meglio quello che ne era rimasto. Come il giorno della partenza mise le dita dentro ai fori, con la consapevolezza dolorosa che erano le tracce indelebili di un massacro. Con le mani tremanti si aprì un varco per entrare in casa."
MU

mercoledì 27 novembre 2013

Immortale



Erano le nove di una calda mattina. Jen parcheggiò il SUV della madre nel solito parcheggio di fronte alla scala che portava all’entrata del college, il suo college. Scese dall’auto e prese la borsa e i fogli del progetto. Quel giorno avrebbe dovuto esporre al professore di arte e alla classe la sua opera. Prima di salire, però, si fermò a contemplare la facciata della scuola; di lì a poco avrebbe conosciuto un’artista, una vera artista, libera nelle sue creazioni, che riesce a dare sfogo alla sua fantasia, senza freni.
Accese una sigaretta e iniziò a salire le scale. Gli altri studenti si apprestavano ad entrare nelle loro classi; c’era chi correva, perché era in ritardo. Lei No. C’era il tempo per tutto, “l’arte non può essere soggiogata dal tempo”, pensò la ragazza, e il professor Scott avrebbe capito.
L’aula d’arte era quella più lontana rispetto all’entrata. Superò l’atrio pieno di bacheche con i volantini delle attività sportive e culturali e altri vari annunci. Svoltò un angolo, superò l’uscita per il cortile, la mensa e arrivò a destinazione. Jen aprì la grande porta e il sole, proveniente dalle finestre in alto, l’abbagliò per qualche istante, finché le tele appese al muro, quelle degli studenti più bravi, acquistarono contorni e contrasti, colori e linee ben definite.
La prima volta che entrò in quel posto era rimasta affascinata da quelle tavole, ora provava soltanto un senso di sfida, una spinta a fare di meglio, a creare l’opera d’arte definitiva; avrebbe cancellato tutto il passato e avrebbe compromesso il futuro: sarebbe rimasta solo quella, null’altro!
Appena varcò la porta notò che quel giorno mancavano due persone: peggio per loro! Il professore, appena la vide, si meravigliò del suo ritardo; Jen era stata una ragazza sempre puntuale e ordinata, curata nella persona e riservata con tutti. Lei avanzò verso il suo posto. Ogni studente aveva un proprio spazio, una propria tela con ogni strumento per la pittura, scultura e ogni forma d’arte. Solitamente non c’erano sedie per gli studenti, quel giorno però erano disposte di fronte alla cattedra, mentre tutto il resto era stato spostato nella parete più in fondo. Gli altri ragazzi avevano appoggiato e sistemato nella parete accanto alla cattedra le loro tavole, coperte ognuna da un suo telo; ciascuno avrebbe dovuto alzarsi, prendere il suo lavoro, mostrarlo e commentarlo.
"Jen, la tua tela?", domandò il professor Scott.
Lei tolse i suoi fogli da sotto il braccio e li sbandierò avvicinandosi all’insegnante, per poggiarli sul tavolo.
"Tutto qui?", chiese lui, pensando di avere qualcosa di più di qualche foglio dalla sua studente migliore.
"No" rispose seccata. Non poteva certo essere tutto lì! La maggior parte stava nella sua testa.
"Dove sta allora?", sbottò l'insegnante alzandosi di scatto, evidentemente innervosito da quella ragazza che pareva prenderlo in giro
"Deve avere pazienza, Scott. Le mostrerò tutto appena mi sarò preparata."
Lui si risedette. La calma della ragazza l’aveva disarmato.
Jen mise la sua borsa nell’unica sedia libera. Si sedette e aspettò con calma il suo turno, mentre sfilavano davanti ai suoi occhi tele pasticciate, oscenità spacciate per arte, visi felici e imbarazzati che presentavano colori sputati su una tela. Il sangue della ragazza ribolliva sempre più, finché, esasperata si alzò in piedi, facendo cadere la sedia
"Ora tocca a me!", disse scalpitante.
Corse verso la porta che bloccò dall’interno con un colpo secco al passante e si voltò verso quegli stupratori dell’arte.
"Che diavolo stai facendo?", sbraitò Scott
"Si calmi professore.. come ho detto ora tocca a me". Jen aveva ripreso la calma: "Ho chiuso la porta perché nessuno può interrompermi mentre creo la mia opera.."
Si portò dietro i suoi compagni che, spaventati dalla sua presenza alle loro spalle, si spostarono vicino al professore. Ora restava lei, di fronte a quei ragazzini e a quello stupido insegnante sempre col sorriso, che non aveva mai capito nulla dell’arte!
"Ora vedrete". Si girò verso la parete dov’erano poggiate le tele bianche. Con passo sostenuto portò dal fondo dell’aula una tavola poggiata su un cavalletto; la sistemò in mezzo alla stanza, con la parte su cui poggiare i colori verso le persone.
"Pregherei ognuno dei ragazzi di mettersi davanti alla tela, tutti rivolti verso di essa. Solo uno tra voi di davanti alla tavola.. professore, lei invece può tornare a sedersi sulla sua sedia.."
La tensione tra i giovani era palpabile. Nessuno però si mosse, anche se le ragazze iniziarono a dare qualche segno d’isteria. L’unico ragazzo presente, invece, cercava di stare calmo e, per quel che riusciva a fare, tentava di calmare le ragazze.
"Non capisco cosa tu voglia fare, Jen". Il professore tentennò un attimo prima di muovere un passo verso di lei. La ragazza lo notò subito con la coda dell’occhio, mentre rifletteva su come disporre i ragazzi.
"Non mi pare di aver chiesto la luna, professore.. si sieda..". Scott vacillò sul secondo passo.
"Si sieda ho detto!" ripeté "Ora!"Il dito dell'artista, puntato sul petto dell'uomo, averebbe potuto bucargli la pelle. Il grido riecheggiò tra le pareti e frenò ogni tentativo del professore di avanzare; all’udire l’urlo, le ragazze poterono dare sfogo alla loro oppressione psicologica, facendo scoppiare acute strilla di terrore. L’insegnante obbedì all’ordine; la paura dipinta sul volto tradiva il tentativo di restare calmo.
"Voi.." Jen riprese il suo tono pacato, ".. forza, davanti alle tavole!".
I suoi compagni si disposero come la ragazza aveva loro comandato. Jen tornò in fondo all’aula per prendere una matassa di spago e tornò verso il professore. Egli, appena la vide, inizio ad agitarsi sulla sedia ma Jen fu più veloce e si portò dietro di lui, sfoderando una forza che non pensava avesse e bloccandogli le braccia negli appoggi della sedia.
"Stia buona per favore, è necessario che lei veda la mia opera, ad ogni costo!". Iniziò a sciogliere lo spago spostandosi sul braccio destro di Scott per legarlo. Fece parecchi giri sull’arto, saldandolo ben stretto sul bracciolo di legno; impegnata nella legatura, Jen non si accorse del pugno che arrivava sul suo volto, tanto da non riuscire a evitarlo e da venire la ragazza alzò lo sguardo verso i suoi compagni, sbalzata all’indietro. Si ritrovò a terra, un po’ stordita, ma riprese subito la sua lucidità; afferrò la prima cosa che trovò per terra, una tavolozza di legno, e la sbatté sulla testa di Scott, facendolo svenire. Pensando di dover sistemare qualche altro tentativo di fuga ma, con sorpresa vide che quasi tutti non si erano mossi, tranne una ragazza che si era rannicchiata per terra, tappandosi le orecchie con i palmi delle mani.
“Bravi ragazzi..” pensò, soddisfatta di aver gestito al meglio una situazione come quella, che sembrava la scena di un film di serie B in cui un povero pazzo prende in ostaggio delle persone.
Terminò di legare il suo professore alla sedia, senza faticare più di tanto per il peso morto del corpo. Legò prima l’altro braccio, poi assicurò le gambe ai piedi della sedia.
Il silenzio nell’aula era rotto soltanto dai singhiozzi della ragazza che si era lasciata cadere a terra e che ora teneva la testa tra le gambe
"Alzati.." disse Jen, avvicinandosi di qualche passo alla ragazza, la quale obbedì.
"Cosa c‘entriamo noi?" chiese una voce maschile oltre le sue spalle. Jen, infuriata, strattonò la ragazza: non avrebbe tollerato un'altro insulto da parte loro!
"Come?" possibile che quei ragazzi fossero così tanto stupidi da non aver capito nulla? "Voi siete la mia opera! Tra poco entrerete nella storia! Sarete la più grande opera d‘arte che una mente possa partorire, sarete eterni!"
Si avvicino ancora un po’ alla ragazza in lacrime. La tirò a sé e la mise davanti alla tela, faccia rivolta al candido biancore che faceva risaltare i capelli rossi scompigliati della giovane.
"Non farmi del male, per favore.." sbiascicò
"Oddio! Come sei banale! Hai paura di morire?"
"Si.."
"Hai paura dell‘eternità..?"
La ragazza non rispose. Le lacrime avevano smesso di scorrere e ora lasciavano il posto ad un leggero tremolio che scuoteva piano tutto il corpo
"Capisco..". Nessuno aveva mai capito Jen. Né tanto meno l’avrebbero capita ora che aveva scoperto l’Opera, quella assoluta.
Si avvicinò alla sua sedia, prese la borsa e la portò alla cattedra. Il suo sguardo si posò sulle tele dei suoi compagni. Il disprezzo per quei conati d’arte rinnovò in lei la determinazione e la convinzione nel proseguire il suo operato.
"L‘Opera assoluta," disse "è questo che un artista deve cercare! I vostri miseri tentativi di sputare fantasia su un foglio bianco, la vostra incapacità mi deprime!". Frugò nella sua borsa, "Questa è l‘Arte!".
Il colpo di pistola rimbombò in tutta l’aula. Gli altri ragazzi si gettarono a terra. Jen puntò la pistola sugli altri ragazzi sparandoli alle gambe, in modo da evitare altri fastidi.
Alzò lo sguardo da terra. Sulla tela si mischiavano sangue e brandelli di materia cerebrale. Lei si avvicinò al corpo accasciato della prima ragazza che aveva sacrificato all’arte. Evitò di calpestare con i piedi la pozza di sangue scuro che si stava formando sotto la testa della ragazza; afferrò con forza i capelli e tirò su il capo, bagnò la faccia nel sangue, lo sollevò e impresse nella tela il volto insanguinato, trascinandolo verso destra, sfumando i contorni e creando una scia. Terminato, mollò la presa e fece distrattamente cadere il corpo per terra. Notando ciò che stava per causare, si affrettò a prendere i piedi della ragazza e la trascinò via.
Al di là della porta, si radunarono delle persone che tentavano di forzare la porta. Sbraitavano e la colpivano ripetutamente, incapaci di realizzare che non l’avrebbero potuta buttare giù con la sola forza dei loro corpi.
Per terra, le offerte all’arte, si contorcevano per il dolore causato dalle loro ferite. Jen passò lo sguardo di ognuno di loro, pensando a quale potesse essere la prossima o le prossime vittime sacrificali. Andò oltre quei corpi contorti e si mosse verso un armadietto di metallo. Lo aprì, senza nessuno sforzo, e prese alcuni strumenti che le tornavano sicuramente utili. Afferrò un taglierino, un martelletto e dei chiodi. Finalmente aveva tutto il necessario!
Tornò dai suoi ragazzi, raggiante. I rumori che prima aveva sentito provenire da dietro la porta erano cessati; ciò le dispose ancora di più l’animo al difficilissimo compito che stava per affrontare. Il chiasso dentro l’aula, invece, le creava un disagio notevole. Passò di fianco a loro, decisa a porre fine a quel tormento. Sparò in testa a due ragazze, sul cuore all’ultima, mentre invece tagliò la gola, di netto (non poteva permettersi esitazioni!), al ragazzo. Pulì il taglierino sulla maglietta del giovane e, folgorata, lo guardò più intensamente, scoprendo che quella doveva essere la parte principale del suo quadro. Prese dal cavalletto la tela appena dipinta e la pose, poggiata su una sedia, in piedi a fianco al corpo del ragazzo. L’effetto era davvero strabiliante!
Con il taglierino squarciò la t-shirt del suo modello, strappò via ciò che ne rimase e, con la lama, affondò nel suo ventre, aprendoglielo e tirando fuori gli intestini.trascinò il corpo della ragazza che aveva sparato al cuore e lo pose sopra le gambe distese del ragazzo. Tirò su il busto di quest’ultimo e lo fece appoggiare, per poter restare in piedi, ad una sedia. Mise in vista il buco al cuore della ragazza aprendole la camicetta, prese gli intestini e glieli avvolse intorno al collo. Col dito bagnato del sangue che fuoriusciva dal cuore, scrisse, sulla pancia della ragazza, “LEGAME”.
Si fermò davanti a ciò che aveva fatto. L’ammirò ma l’opera era ancora incompiuta. Prese il corpo di una delle altre due ragazze, spostò la tela dalla sedia e vi mise sopra il corpo; corse alla cattedra per prendere lo spago e legò le mani della ragazza dietro la sedia, in modo che non cadesse in avanti. Strappò sul davanti la sua maglietta e il suo reggiseno e li lasciò appesi alle spalle; chinò la testa in avanti, le aprì il torace, le frantumò lo sterno col martelletto e tirò fuori il cuore, stando attenta a fare piano mentre lo appoggiava alle ossa nude, in modo che non si staccasse per il suo peso. Ficcò, con forza, alcuni chiodi nell’organo, in maniera obliqua, raffigurando un cuore trafitto. Ancora una volta, sulla pelle, scrisse “AMORE”.
Che farne dell’altro corpo?
Nel corridoio dietro la porta si asserragliarono di nuovo delle persone. Questa volta sembravano esserci pure dei poliziotti. Il loro vociare era incomprensibile, dovuto anche allo spessore della porta che, in precedenza, aveva funzionato come tagliafuoco.
A quanto sembrava anche la polizia si era interessata alla nascita di un’artista. Jen poteva sentire la loro ansia, i loro gesti smaniosi di abbattere quella porta per entrare a vedere. Gli spettatori erano scalpitanti e lei aveva poco tempo per terminare il suo lavoro. Fino ad ora aveva seguito il suo progetto, ma ora l’ultima parte di esso non la stuzzicava più. Aveva pochissimo tempo per studiare un diversivo. Un maledetto diversivo!
Trascinò il corpo dell’ultima ragazza, la spogliò velocemente e, con rapida precisione, le tagliò i piccoli seni e le sfregiò il sesso. Bagnò, col suo stesso sangue e con quello che creava piccole pozzanghere nel pavimento. La mise seduta a gambe aperte, in modo che risaltasse, su tutto, la deturpazione, sistemandola poggiata alle gambe dell’altra ragazza seduta, cercando di non occultare la scritta di questa. Prese il martelletto e, con una gran fretta, scandì i propri colpi insieme a quelli che i suoi spettatori davano alla porta. Liberò il cervello della ragazza dalle schegge d’osso, prese le sue mani, legò i polsi alle gambe della modella dietro di lei, e le conficcò le dita nella materia grigia. Posizionò gli ultimi chiodi con la testa capovolta e premuta contro quella parte del corpo. Pulì la frante dal sangue e scrisse “RAGIONE”.
Aveva terminato! Si allontanò un poco dal suo quadro, per poter ammirare l’Opera nella sua interezza. Le lacrime agli occhi. Ora l’uomo si era fuso con l’arte, aveva dato se stesso per quella, il sacrificio necessario perché potesse diventare assoluta. Jen fu colmata da un senso di gioia incontrollabile! Ora mancava il giudizio, quello che l’avrebbe consacrata Immortale!
Dietro di sé Scott era ancora privo di sensi. Lo trasportò davanti all’Opera e gli si mise davanti per svegliarlo. Lo schiaffeggiò ripetutamente, finché il professore iniziò ad aprire gli occhi. Ancora frastornato per il colpo ricevuto, rimase prima incuriosito da ciò che aveva davanti, poi urlò e infine vomitò su se stesso, non capace di trattenere i suoi conati.
"Questa è la mia opera, professore. Non ha titolo perché non può averne; è quella assoluta, l‘uomo fonde se stesso con l‘arte, divenendo una cosa sola!"
Scott non disse nulla; impegnava il proprio tempo ad agitarsi nella sedia, cercando di divincolarsi con la forza dalle strette spire dello spago, riscendo soltanto a procurarsi ferite profonde e insanguinare la corda.
"Qual è il suo giudizio?".
Seguì un gorgoglio nato dal profondo della gola dell’insegnante, che fuoriuscì insieme all’acido verdastro del suo stomaco e andò a colare lento sul suo mento.
Jen si sentì insultata. Una rabbia istintiva irrigidì il suo braccio e le fece infilzare il taglierino nella gola di quel bestemmiatore. Il sangue si mischiò al liquido verde.
La ragazza si sentì delusa, la pervase la sensazione di essere sola, inutile. Ciò però non la intimorì. Con passo deciso andò verso la porta, incitata dal clamore dei suoi spettatori. Sbloccò la porta e la spalancò. Si trovo di fronte un folto gruppo di poliziotti e, poco più in là, di studenti e altri professori. In un battito di ciglia gli agenti le furono addosso, la trascinarono a terra e l’ammanettarono, trattandola come il peggiore dei criminali. Quando, con forza, la tirarono su prendendola sotto le braccia, notò alcuni di loro guardare, esterrefatti, la sua Opera, chi, con le mani, bloccava un probabile grido di terrore rimasto incastrato tra le corde vocali.
Jen sorrise. La sua missione era compiuta. “Ammirate!” pensò. Ora tutto il mondo avrebbe conosciuto il suo genio e nessuno l’avrebbe mai negato.
Il sorriso di Jen non si spense mai, nemmeno quando, durante il solito giorno di visita dello strizzacervelli nella sua cella, lui le porse la sua penna e le chiese di disegnare qualcosa
"Fammi vedere quanto sei brava, Jen."