Erano le nove di una
calda mattina. Jen parcheggiò il SUV della madre nel solito parcheggio di
fronte alla scala che portava all’entrata del college, il suo college. Scese
dall’auto e prese la borsa e i fogli del progetto. Quel giorno avrebbe dovuto
esporre al professore di arte e alla classe la sua opera. Prima di salire,
però, si fermò a contemplare la facciata della scuola; di lì a poco avrebbe
conosciuto un’artista, una vera artista, libera nelle sue creazioni, che riesce
a dare sfogo alla sua fantasia, senza freni.
Accese una sigaretta
e iniziò a salire le scale. Gli altri studenti si apprestavano ad entrare nelle
loro classi; c’era chi correva, perché era in ritardo. Lei No. C’era il tempo
per tutto, “l’arte non può essere soggiogata dal tempo”, pensò la ragazza, e il
professor Scott avrebbe capito.
L’aula d’arte era
quella più lontana rispetto all’entrata. Superò l’atrio pieno di bacheche con i
volantini delle attività sportive e culturali e altri vari annunci. Svoltò un
angolo, superò l’uscita per il cortile, la mensa e arrivò a destinazione. Jen
aprì la grande porta e il sole, proveniente dalle finestre in alto, l’abbagliò
per qualche istante, finché le tele appese al muro, quelle degli studenti più
bravi, acquistarono contorni e contrasti, colori e linee ben definite.
La prima volta che
entrò in quel posto era rimasta affascinata da quelle tavole, ora provava
soltanto un senso di sfida, una spinta a fare di meglio, a creare l’opera
d’arte definitiva; avrebbe cancellato tutto il passato e avrebbe compromesso il
futuro: sarebbe rimasta solo quella, null’altro!
Appena varcò la
porta notò che quel giorno mancavano due persone: peggio per loro! Il
professore, appena la vide, si meravigliò del suo ritardo; Jen era stata una
ragazza sempre puntuale e ordinata, curata nella persona e riservata con tutti.
Lei avanzò verso il suo posto. Ogni studente aveva un proprio spazio, una
propria tela con ogni strumento per la pittura, scultura e ogni forma d’arte.
Solitamente non c’erano sedie per gli studenti, quel giorno però erano disposte
di fronte alla cattedra, mentre tutto il resto era stato spostato nella parete
più in fondo. Gli altri ragazzi avevano appoggiato e sistemato nella parete
accanto alla cattedra le loro tavole, coperte ognuna da un suo telo; ciascuno
avrebbe dovuto alzarsi, prendere il suo lavoro, mostrarlo e commentarlo.
"Jen, la tua
tela?", domandò il professor Scott.
Lei tolse i suoi
fogli da sotto il braccio e li sbandierò avvicinandosi all’insegnante, per
poggiarli sul tavolo.
"Tutto
qui?", chiese lui, pensando di avere qualcosa di più di qualche foglio
dalla sua studente migliore.
"No"
rispose seccata. Non poteva certo essere tutto lì! La maggior parte stava nella
sua testa.
"Dove sta
allora?", sbottò l'insegnante alzandosi di scatto, evidentemente
innervosito da quella ragazza che pareva prenderlo in giro
"Deve avere
pazienza, Scott. Le mostrerò tutto appena mi sarò preparata."
Lui si risedette. La
calma della ragazza l’aveva disarmato.
Jen mise la sua
borsa nell’unica sedia libera. Si sedette e aspettò con calma il suo turno,
mentre sfilavano davanti ai suoi occhi tele pasticciate, oscenità spacciate per
arte, visi felici e imbarazzati che presentavano colori sputati su una tela. Il
sangue della ragazza ribolliva sempre più, finché, esasperata si alzò in piedi,
facendo cadere la sedia
"Ora tocca a
me!", disse scalpitante.
Corse verso la porta
che bloccò dall’interno con un colpo secco al passante e si voltò verso quegli
stupratori dell’arte.
"Che diavolo
stai facendo?", sbraitò Scott
"Si calmi
professore.. come ho detto ora tocca a me". Jen aveva ripreso la calma:
"Ho chiuso la porta perché nessuno può interrompermi mentre creo la mia
opera.."
Si portò dietro i
suoi compagni che, spaventati dalla sua presenza alle loro spalle, si spostarono
vicino al professore. Ora restava lei, di fronte a quei ragazzini e a quello
stupido insegnante sempre col sorriso, che non aveva mai capito nulla
dell’arte!
"Ora
vedrete". Si girò verso la parete dov’erano poggiate le tele bianche. Con
passo sostenuto portò dal fondo dell’aula una tavola poggiata su un cavalletto;
la sistemò in mezzo alla stanza, con la parte su cui poggiare i colori verso le
persone.
"Pregherei
ognuno dei ragazzi di mettersi davanti alla tela, tutti rivolti verso di essa.
Solo uno tra voi di davanti alla tavola.. professore, lei invece può tornare a
sedersi sulla sua sedia.."
La tensione tra i
giovani era palpabile. Nessuno però si mosse, anche se le ragazze iniziarono a
dare qualche segno d’isteria. L’unico ragazzo presente, invece, cercava di
stare calmo e, per quel che riusciva a fare, tentava di calmare le ragazze.
"Non capisco
cosa tu voglia fare, Jen". Il professore tentennò un attimo prima di
muovere un passo verso di lei. La ragazza lo notò subito con la coda
dell’occhio, mentre rifletteva su come disporre i ragazzi.
"Non mi pare di
aver chiesto la luna, professore.. si sieda..". Scott vacillò sul secondo
passo.
"Si sieda ho
detto!" ripeté "Ora!"Il dito dell'artista, puntato sul petto
dell'uomo, averebbe potuto bucargli la pelle. Il grido riecheggiò tra le pareti
e frenò ogni tentativo del professore di avanzare; all’udire l’urlo, le ragazze
poterono dare sfogo alla loro oppressione psicologica, facendo scoppiare acute
strilla di terrore. L’insegnante obbedì all’ordine; la paura dipinta sul volto
tradiva il tentativo di restare calmo.
"Voi.."
Jen riprese il suo tono pacato, ".. forza, davanti alle tavole!".
I suoi compagni si
disposero come la ragazza aveva loro comandato. Jen tornò in fondo all’aula per
prendere una matassa di spago e tornò verso il professore. Egli, appena la
vide, inizio ad agitarsi sulla sedia ma Jen fu più veloce e si portò dietro di
lui, sfoderando una forza che non pensava avesse e bloccandogli le braccia
negli appoggi della sedia.
"Stia buona per
favore, è necessario che lei veda la mia opera, ad ogni costo!". Iniziò a
sciogliere lo spago spostandosi sul braccio destro di Scott per legarlo. Fece
parecchi giri sull’arto, saldandolo ben stretto sul bracciolo di legno;
impegnata nella legatura, Jen non si accorse del pugno che arrivava sul suo
volto, tanto da non riuscire a evitarlo e da venire la ragazza alzò lo sguardo
verso i suoi compagni, sbalzata all’indietro. Si ritrovò a terra, un po’
stordita, ma riprese subito la sua lucidità; afferrò la prima cosa che trovò
per terra, una tavolozza di legno, e la sbatté sulla testa di Scott, facendolo
svenire. Pensando di dover sistemare qualche altro tentativo di fuga ma, con
sorpresa vide che quasi tutti non si erano mossi, tranne una ragazza che si era
rannicchiata per terra, tappandosi le orecchie con i palmi delle mani.
“Bravi ragazzi..”
pensò, soddisfatta di aver gestito al meglio una situazione come quella, che
sembrava la scena di un film di serie B in cui un povero pazzo prende in
ostaggio delle persone.
Terminò di legare il
suo professore alla sedia, senza faticare più di tanto per il peso morto del
corpo. Legò prima l’altro braccio, poi assicurò le gambe ai piedi della sedia.
Il silenzio
nell’aula era rotto soltanto dai singhiozzi della ragazza che si era lasciata
cadere a terra e che ora teneva la testa tra le gambe
"Alzati.."
disse Jen, avvicinandosi di qualche passo alla ragazza, la quale obbedì.
"Cosa
c‘entriamo noi?" chiese una voce maschile oltre le sue spalle. Jen,
infuriata, strattonò la ragazza: non avrebbe tollerato un'altro insulto da
parte loro!
"Come?"
possibile che quei ragazzi fossero così tanto stupidi da non aver capito nulla?
"Voi siete la mia opera! Tra poco entrerete nella storia! Sarete la più
grande opera d‘arte che una mente possa partorire, sarete eterni!"
Si avvicino ancora
un po’ alla ragazza in lacrime. La tirò a sé e la mise davanti alla tela,
faccia rivolta al candido biancore che faceva risaltare i capelli rossi
scompigliati della giovane.
"Non farmi del
male, per favore.." sbiascicò
"Oddio! Come
sei banale! Hai paura di morire?"
"Si.."
"Hai paura
dell‘eternità..?"
La ragazza non
rispose. Le lacrime avevano smesso di scorrere e ora lasciavano il posto ad un
leggero tremolio che scuoteva piano tutto il corpo
"Capisco..".
Nessuno aveva mai capito Jen. Né tanto meno l’avrebbero capita ora che aveva
scoperto l’Opera, quella assoluta.
Si avvicinò alla sua
sedia, prese la borsa e la portò alla cattedra. Il suo sguardo si posò sulle
tele dei suoi compagni. Il disprezzo per quei conati d’arte rinnovò in lei la
determinazione e la convinzione nel proseguire il suo operato.
"L‘Opera
assoluta," disse "è questo che un artista deve cercare! I vostri
miseri tentativi di sputare fantasia su un foglio bianco, la vostra incapacità
mi deprime!". Frugò nella sua borsa, "Questa è l‘Arte!".
Il colpo di pistola
rimbombò in tutta l’aula. Gli altri ragazzi si gettarono a terra. Jen puntò la
pistola sugli altri ragazzi sparandoli alle gambe, in modo da evitare altri
fastidi.
Alzò lo sguardo da
terra. Sulla tela si mischiavano sangue e brandelli di materia cerebrale. Lei
si avvicinò al corpo accasciato della prima ragazza che aveva sacrificato
all’arte. Evitò di calpestare con i piedi la pozza di sangue scuro che si stava
formando sotto la testa della ragazza; afferrò con forza i capelli e tirò su il
capo, bagnò la faccia nel sangue, lo sollevò e impresse nella tela il volto
insanguinato, trascinandolo verso destra, sfumando i contorni e creando una
scia. Terminato, mollò la presa e fece distrattamente cadere il corpo per
terra. Notando ciò che stava per causare, si affrettò a prendere i piedi della
ragazza e la trascinò via.
Al di là della
porta, si radunarono delle persone che tentavano di forzare la porta.
Sbraitavano e la colpivano ripetutamente, incapaci di realizzare che non
l’avrebbero potuta buttare giù con la sola forza dei loro corpi.
Per terra, le
offerte all’arte, si contorcevano per il dolore causato dalle loro ferite. Jen
passò lo sguardo di ognuno di loro, pensando a quale potesse essere la prossima
o le prossime vittime sacrificali. Andò oltre quei corpi contorti e si mosse
verso un armadietto di metallo. Lo aprì, senza nessuno sforzo, e prese alcuni
strumenti che le tornavano sicuramente utili. Afferrò un taglierino, un
martelletto e dei chiodi. Finalmente aveva tutto il necessario!
Tornò dai suoi
ragazzi, raggiante. I rumori che prima aveva sentito provenire da dietro la
porta erano cessati; ciò le dispose ancora di più l’animo al difficilissimo
compito che stava per affrontare. Il chiasso dentro l’aula, invece, le creava
un disagio notevole. Passò di fianco a loro, decisa a porre fine a quel
tormento. Sparò in testa a due ragazze, sul cuore all’ultima, mentre invece
tagliò la gola, di netto (non poteva permettersi esitazioni!), al ragazzo. Pulì
il taglierino sulla maglietta del giovane e, folgorata, lo guardò più
intensamente, scoprendo che quella doveva essere la parte principale del suo
quadro. Prese dal cavalletto la tela appena dipinta e la pose, poggiata su una
sedia, in piedi a fianco al corpo del ragazzo. L’effetto era davvero
strabiliante!
Con il taglierino
squarciò la t-shirt del suo modello, strappò via ciò che ne rimase e, con la
lama, affondò nel suo ventre, aprendoglielo e tirando fuori gli
intestini.trascinò il corpo della ragazza che aveva sparato al cuore e lo pose
sopra le gambe distese del ragazzo. Tirò su il busto di quest’ultimo e lo fece
appoggiare, per poter restare in piedi, ad una sedia. Mise in vista il buco al
cuore della ragazza aprendole la camicetta, prese gli intestini e glieli
avvolse intorno al collo. Col dito bagnato del sangue che fuoriusciva dal
cuore, scrisse, sulla pancia della ragazza, “LEGAME”.
Si fermò davanti a
ciò che aveva fatto. L’ammirò ma l’opera era ancora incompiuta. Prese il corpo
di una delle altre due ragazze, spostò la tela dalla sedia e vi mise sopra il
corpo; corse alla cattedra per prendere lo spago e legò le mani della ragazza
dietro la sedia, in modo che non cadesse in avanti. Strappò sul davanti la sua
maglietta e il suo reggiseno e li lasciò appesi alle spalle; chinò la testa in
avanti, le aprì il torace, le frantumò lo sterno col martelletto e tirò fuori
il cuore, stando attenta a fare piano mentre lo appoggiava alle ossa nude, in
modo che non si staccasse per il suo peso. Ficcò, con forza, alcuni chiodi
nell’organo, in maniera obliqua, raffigurando un cuore trafitto. Ancora una
volta, sulla pelle, scrisse “AMORE”.
Che farne dell’altro
corpo?
Nel corridoio dietro
la porta si asserragliarono di nuovo delle persone. Questa volta sembravano
esserci pure dei poliziotti. Il loro vociare era incomprensibile, dovuto anche
allo spessore della porta che, in precedenza, aveva funzionato come
tagliafuoco.
A quanto sembrava
anche la polizia si era interessata alla nascita di un’artista. Jen poteva
sentire la loro ansia, i loro gesti smaniosi di abbattere quella porta per
entrare a vedere. Gli spettatori erano scalpitanti e lei aveva poco tempo per
terminare il suo lavoro. Fino ad ora aveva seguito il suo progetto, ma ora
l’ultima parte di esso non la stuzzicava più. Aveva pochissimo tempo per
studiare un diversivo. Un maledetto diversivo!
Trascinò il corpo
dell’ultima ragazza, la spogliò velocemente e, con rapida precisione, le tagliò
i piccoli seni e le sfregiò il sesso. Bagnò, col suo stesso sangue e con quello
che creava piccole pozzanghere nel pavimento. La mise seduta a gambe aperte, in
modo che risaltasse, su tutto, la deturpazione, sistemandola poggiata alle
gambe dell’altra ragazza seduta, cercando di non occultare la scritta di
questa. Prese il martelletto e, con una gran fretta, scandì i propri colpi
insieme a quelli che i suoi spettatori davano alla porta. Liberò il cervello
della ragazza dalle schegge d’osso, prese le sue mani, legò i polsi alle gambe
della modella dietro di lei, e le conficcò le dita nella materia grigia.
Posizionò gli ultimi chiodi con la testa capovolta e premuta contro quella
parte del corpo. Pulì la frante dal sangue e scrisse “RAGIONE”.
Aveva terminato! Si
allontanò un poco dal suo quadro, per poter ammirare l’Opera nella sua
interezza. Le lacrime agli occhi. Ora l’uomo si era fuso con l’arte, aveva dato
se stesso per quella, il sacrificio necessario perché potesse diventare
assoluta. Jen fu colmata da un senso di gioia incontrollabile! Ora mancava il
giudizio, quello che l’avrebbe consacrata Immortale!
Dietro di sé Scott
era ancora privo di sensi. Lo trasportò davanti all’Opera e gli si mise davanti
per svegliarlo. Lo schiaffeggiò ripetutamente, finché il professore iniziò ad
aprire gli occhi. Ancora frastornato per il colpo ricevuto, rimase prima
incuriosito da ciò che aveva davanti, poi urlò e infine vomitò su se stesso,
non capace di trattenere i suoi conati.
"Questa è la
mia opera, professore. Non ha titolo perché non può averne; è quella assoluta,
l‘uomo fonde se stesso con l‘arte, divenendo una cosa sola!"
Scott non disse
nulla; impegnava il proprio tempo ad agitarsi nella sedia, cercando di
divincolarsi con la forza dalle strette spire dello spago, riscendo soltanto a
procurarsi ferite profonde e insanguinare la corda.
"Qual è il suo
giudizio?".
Seguì un gorgoglio
nato dal profondo della gola dell’insegnante, che fuoriuscì insieme all’acido
verdastro del suo stomaco e andò a colare lento sul suo mento.
Jen si sentì
insultata. Una rabbia istintiva irrigidì il suo braccio e le fece infilzare il
taglierino nella gola di quel bestemmiatore. Il sangue si mischiò al liquido
verde.
La ragazza si sentì
delusa, la pervase la sensazione di essere sola, inutile. Ciò però non la
intimorì. Con passo deciso andò verso la porta, incitata dal clamore dei suoi
spettatori. Sbloccò la porta e la spalancò. Si trovo di fronte un folto gruppo
di poliziotti e, poco più in là, di studenti e altri professori. In un battito
di ciglia gli agenti le furono addosso, la trascinarono a terra e
l’ammanettarono, trattandola come il peggiore dei criminali. Quando, con forza,
la tirarono su prendendola sotto le braccia, notò alcuni di loro guardare,
esterrefatti, la sua Opera, chi, con le mani, bloccava un probabile grido di
terrore rimasto incastrato tra le corde vocali.
Jen sorrise. La sua
missione era compiuta. “Ammirate!” pensò. Ora tutto il mondo avrebbe conosciuto
il suo genio e nessuno l’avrebbe mai negato.
Il sorriso di Jen
non si spense mai, nemmeno quando, durante il solito giorno di visita dello
strizzacervelli nella sua cella, lui le porse la sua penna e le chiese di
disegnare qualcosa
"Fammi vedere
quanto sei brava, Jen."
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