mercoledì 27 novembre 2013

Immortale



Erano le nove di una calda mattina. Jen parcheggiò il SUV della madre nel solito parcheggio di fronte alla scala che portava all’entrata del college, il suo college. Scese dall’auto e prese la borsa e i fogli del progetto. Quel giorno avrebbe dovuto esporre al professore di arte e alla classe la sua opera. Prima di salire, però, si fermò a contemplare la facciata della scuola; di lì a poco avrebbe conosciuto un’artista, una vera artista, libera nelle sue creazioni, che riesce a dare sfogo alla sua fantasia, senza freni.
Accese una sigaretta e iniziò a salire le scale. Gli altri studenti si apprestavano ad entrare nelle loro classi; c’era chi correva, perché era in ritardo. Lei No. C’era il tempo per tutto, “l’arte non può essere soggiogata dal tempo”, pensò la ragazza, e il professor Scott avrebbe capito.
L’aula d’arte era quella più lontana rispetto all’entrata. Superò l’atrio pieno di bacheche con i volantini delle attività sportive e culturali e altri vari annunci. Svoltò un angolo, superò l’uscita per il cortile, la mensa e arrivò a destinazione. Jen aprì la grande porta e il sole, proveniente dalle finestre in alto, l’abbagliò per qualche istante, finché le tele appese al muro, quelle degli studenti più bravi, acquistarono contorni e contrasti, colori e linee ben definite.
La prima volta che entrò in quel posto era rimasta affascinata da quelle tavole, ora provava soltanto un senso di sfida, una spinta a fare di meglio, a creare l’opera d’arte definitiva; avrebbe cancellato tutto il passato e avrebbe compromesso il futuro: sarebbe rimasta solo quella, null’altro!
Appena varcò la porta notò che quel giorno mancavano due persone: peggio per loro! Il professore, appena la vide, si meravigliò del suo ritardo; Jen era stata una ragazza sempre puntuale e ordinata, curata nella persona e riservata con tutti. Lei avanzò verso il suo posto. Ogni studente aveva un proprio spazio, una propria tela con ogni strumento per la pittura, scultura e ogni forma d’arte. Solitamente non c’erano sedie per gli studenti, quel giorno però erano disposte di fronte alla cattedra, mentre tutto il resto era stato spostato nella parete più in fondo. Gli altri ragazzi avevano appoggiato e sistemato nella parete accanto alla cattedra le loro tavole, coperte ognuna da un suo telo; ciascuno avrebbe dovuto alzarsi, prendere il suo lavoro, mostrarlo e commentarlo.
"Jen, la tua tela?", domandò il professor Scott.
Lei tolse i suoi fogli da sotto il braccio e li sbandierò avvicinandosi all’insegnante, per poggiarli sul tavolo.
"Tutto qui?", chiese lui, pensando di avere qualcosa di più di qualche foglio dalla sua studente migliore.
"No" rispose seccata. Non poteva certo essere tutto lì! La maggior parte stava nella sua testa.
"Dove sta allora?", sbottò l'insegnante alzandosi di scatto, evidentemente innervosito da quella ragazza che pareva prenderlo in giro
"Deve avere pazienza, Scott. Le mostrerò tutto appena mi sarò preparata."
Lui si risedette. La calma della ragazza l’aveva disarmato.
Jen mise la sua borsa nell’unica sedia libera. Si sedette e aspettò con calma il suo turno, mentre sfilavano davanti ai suoi occhi tele pasticciate, oscenità spacciate per arte, visi felici e imbarazzati che presentavano colori sputati su una tela. Il sangue della ragazza ribolliva sempre più, finché, esasperata si alzò in piedi, facendo cadere la sedia
"Ora tocca a me!", disse scalpitante.
Corse verso la porta che bloccò dall’interno con un colpo secco al passante e si voltò verso quegli stupratori dell’arte.
"Che diavolo stai facendo?", sbraitò Scott
"Si calmi professore.. come ho detto ora tocca a me". Jen aveva ripreso la calma: "Ho chiuso la porta perché nessuno può interrompermi mentre creo la mia opera.."
Si portò dietro i suoi compagni che, spaventati dalla sua presenza alle loro spalle, si spostarono vicino al professore. Ora restava lei, di fronte a quei ragazzini e a quello stupido insegnante sempre col sorriso, che non aveva mai capito nulla dell’arte!
"Ora vedrete". Si girò verso la parete dov’erano poggiate le tele bianche. Con passo sostenuto portò dal fondo dell’aula una tavola poggiata su un cavalletto; la sistemò in mezzo alla stanza, con la parte su cui poggiare i colori verso le persone.
"Pregherei ognuno dei ragazzi di mettersi davanti alla tela, tutti rivolti verso di essa. Solo uno tra voi di davanti alla tavola.. professore, lei invece può tornare a sedersi sulla sua sedia.."
La tensione tra i giovani era palpabile. Nessuno però si mosse, anche se le ragazze iniziarono a dare qualche segno d’isteria. L’unico ragazzo presente, invece, cercava di stare calmo e, per quel che riusciva a fare, tentava di calmare le ragazze.
"Non capisco cosa tu voglia fare, Jen". Il professore tentennò un attimo prima di muovere un passo verso di lei. La ragazza lo notò subito con la coda dell’occhio, mentre rifletteva su come disporre i ragazzi.
"Non mi pare di aver chiesto la luna, professore.. si sieda..". Scott vacillò sul secondo passo.
"Si sieda ho detto!" ripeté "Ora!"Il dito dell'artista, puntato sul petto dell'uomo, averebbe potuto bucargli la pelle. Il grido riecheggiò tra le pareti e frenò ogni tentativo del professore di avanzare; all’udire l’urlo, le ragazze poterono dare sfogo alla loro oppressione psicologica, facendo scoppiare acute strilla di terrore. L’insegnante obbedì all’ordine; la paura dipinta sul volto tradiva il tentativo di restare calmo.
"Voi.." Jen riprese il suo tono pacato, ".. forza, davanti alle tavole!".
I suoi compagni si disposero come la ragazza aveva loro comandato. Jen tornò in fondo all’aula per prendere una matassa di spago e tornò verso il professore. Egli, appena la vide, inizio ad agitarsi sulla sedia ma Jen fu più veloce e si portò dietro di lui, sfoderando una forza che non pensava avesse e bloccandogli le braccia negli appoggi della sedia.
"Stia buona per favore, è necessario che lei veda la mia opera, ad ogni costo!". Iniziò a sciogliere lo spago spostandosi sul braccio destro di Scott per legarlo. Fece parecchi giri sull’arto, saldandolo ben stretto sul bracciolo di legno; impegnata nella legatura, Jen non si accorse del pugno che arrivava sul suo volto, tanto da non riuscire a evitarlo e da venire la ragazza alzò lo sguardo verso i suoi compagni, sbalzata all’indietro. Si ritrovò a terra, un po’ stordita, ma riprese subito la sua lucidità; afferrò la prima cosa che trovò per terra, una tavolozza di legno, e la sbatté sulla testa di Scott, facendolo svenire. Pensando di dover sistemare qualche altro tentativo di fuga ma, con sorpresa vide che quasi tutti non si erano mossi, tranne una ragazza che si era rannicchiata per terra, tappandosi le orecchie con i palmi delle mani.
“Bravi ragazzi..” pensò, soddisfatta di aver gestito al meglio una situazione come quella, che sembrava la scena di un film di serie B in cui un povero pazzo prende in ostaggio delle persone.
Terminò di legare il suo professore alla sedia, senza faticare più di tanto per il peso morto del corpo. Legò prima l’altro braccio, poi assicurò le gambe ai piedi della sedia.
Il silenzio nell’aula era rotto soltanto dai singhiozzi della ragazza che si era lasciata cadere a terra e che ora teneva la testa tra le gambe
"Alzati.." disse Jen, avvicinandosi di qualche passo alla ragazza, la quale obbedì.
"Cosa c‘entriamo noi?" chiese una voce maschile oltre le sue spalle. Jen, infuriata, strattonò la ragazza: non avrebbe tollerato un'altro insulto da parte loro!
"Come?" possibile che quei ragazzi fossero così tanto stupidi da non aver capito nulla? "Voi siete la mia opera! Tra poco entrerete nella storia! Sarete la più grande opera d‘arte che una mente possa partorire, sarete eterni!"
Si avvicino ancora un po’ alla ragazza in lacrime. La tirò a sé e la mise davanti alla tela, faccia rivolta al candido biancore che faceva risaltare i capelli rossi scompigliati della giovane.
"Non farmi del male, per favore.." sbiascicò
"Oddio! Come sei banale! Hai paura di morire?"
"Si.."
"Hai paura dell‘eternità..?"
La ragazza non rispose. Le lacrime avevano smesso di scorrere e ora lasciavano il posto ad un leggero tremolio che scuoteva piano tutto il corpo
"Capisco..". Nessuno aveva mai capito Jen. Né tanto meno l’avrebbero capita ora che aveva scoperto l’Opera, quella assoluta.
Si avvicinò alla sua sedia, prese la borsa e la portò alla cattedra. Il suo sguardo si posò sulle tele dei suoi compagni. Il disprezzo per quei conati d’arte rinnovò in lei la determinazione e la convinzione nel proseguire il suo operato.
"L‘Opera assoluta," disse "è questo che un artista deve cercare! I vostri miseri tentativi di sputare fantasia su un foglio bianco, la vostra incapacità mi deprime!". Frugò nella sua borsa, "Questa è l‘Arte!".
Il colpo di pistola rimbombò in tutta l’aula. Gli altri ragazzi si gettarono a terra. Jen puntò la pistola sugli altri ragazzi sparandoli alle gambe, in modo da evitare altri fastidi.
Alzò lo sguardo da terra. Sulla tela si mischiavano sangue e brandelli di materia cerebrale. Lei si avvicinò al corpo accasciato della prima ragazza che aveva sacrificato all’arte. Evitò di calpestare con i piedi la pozza di sangue scuro che si stava formando sotto la testa della ragazza; afferrò con forza i capelli e tirò su il capo, bagnò la faccia nel sangue, lo sollevò e impresse nella tela il volto insanguinato, trascinandolo verso destra, sfumando i contorni e creando una scia. Terminato, mollò la presa e fece distrattamente cadere il corpo per terra. Notando ciò che stava per causare, si affrettò a prendere i piedi della ragazza e la trascinò via.
Al di là della porta, si radunarono delle persone che tentavano di forzare la porta. Sbraitavano e la colpivano ripetutamente, incapaci di realizzare che non l’avrebbero potuta buttare giù con la sola forza dei loro corpi.
Per terra, le offerte all’arte, si contorcevano per il dolore causato dalle loro ferite. Jen passò lo sguardo di ognuno di loro, pensando a quale potesse essere la prossima o le prossime vittime sacrificali. Andò oltre quei corpi contorti e si mosse verso un armadietto di metallo. Lo aprì, senza nessuno sforzo, e prese alcuni strumenti che le tornavano sicuramente utili. Afferrò un taglierino, un martelletto e dei chiodi. Finalmente aveva tutto il necessario!
Tornò dai suoi ragazzi, raggiante. I rumori che prima aveva sentito provenire da dietro la porta erano cessati; ciò le dispose ancora di più l’animo al difficilissimo compito che stava per affrontare. Il chiasso dentro l’aula, invece, le creava un disagio notevole. Passò di fianco a loro, decisa a porre fine a quel tormento. Sparò in testa a due ragazze, sul cuore all’ultima, mentre invece tagliò la gola, di netto (non poteva permettersi esitazioni!), al ragazzo. Pulì il taglierino sulla maglietta del giovane e, folgorata, lo guardò più intensamente, scoprendo che quella doveva essere la parte principale del suo quadro. Prese dal cavalletto la tela appena dipinta e la pose, poggiata su una sedia, in piedi a fianco al corpo del ragazzo. L’effetto era davvero strabiliante!
Con il taglierino squarciò la t-shirt del suo modello, strappò via ciò che ne rimase e, con la lama, affondò nel suo ventre, aprendoglielo e tirando fuori gli intestini.trascinò il corpo della ragazza che aveva sparato al cuore e lo pose sopra le gambe distese del ragazzo. Tirò su il busto di quest’ultimo e lo fece appoggiare, per poter restare in piedi, ad una sedia. Mise in vista il buco al cuore della ragazza aprendole la camicetta, prese gli intestini e glieli avvolse intorno al collo. Col dito bagnato del sangue che fuoriusciva dal cuore, scrisse, sulla pancia della ragazza, “LEGAME”.
Si fermò davanti a ciò che aveva fatto. L’ammirò ma l’opera era ancora incompiuta. Prese il corpo di una delle altre due ragazze, spostò la tela dalla sedia e vi mise sopra il corpo; corse alla cattedra per prendere lo spago e legò le mani della ragazza dietro la sedia, in modo che non cadesse in avanti. Strappò sul davanti la sua maglietta e il suo reggiseno e li lasciò appesi alle spalle; chinò la testa in avanti, le aprì il torace, le frantumò lo sterno col martelletto e tirò fuori il cuore, stando attenta a fare piano mentre lo appoggiava alle ossa nude, in modo che non si staccasse per il suo peso. Ficcò, con forza, alcuni chiodi nell’organo, in maniera obliqua, raffigurando un cuore trafitto. Ancora una volta, sulla pelle, scrisse “AMORE”.
Che farne dell’altro corpo?
Nel corridoio dietro la porta si asserragliarono di nuovo delle persone. Questa volta sembravano esserci pure dei poliziotti. Il loro vociare era incomprensibile, dovuto anche allo spessore della porta che, in precedenza, aveva funzionato come tagliafuoco.
A quanto sembrava anche la polizia si era interessata alla nascita di un’artista. Jen poteva sentire la loro ansia, i loro gesti smaniosi di abbattere quella porta per entrare a vedere. Gli spettatori erano scalpitanti e lei aveva poco tempo per terminare il suo lavoro. Fino ad ora aveva seguito il suo progetto, ma ora l’ultima parte di esso non la stuzzicava più. Aveva pochissimo tempo per studiare un diversivo. Un maledetto diversivo!
Trascinò il corpo dell’ultima ragazza, la spogliò velocemente e, con rapida precisione, le tagliò i piccoli seni e le sfregiò il sesso. Bagnò, col suo stesso sangue e con quello che creava piccole pozzanghere nel pavimento. La mise seduta a gambe aperte, in modo che risaltasse, su tutto, la deturpazione, sistemandola poggiata alle gambe dell’altra ragazza seduta, cercando di non occultare la scritta di questa. Prese il martelletto e, con una gran fretta, scandì i propri colpi insieme a quelli che i suoi spettatori davano alla porta. Liberò il cervello della ragazza dalle schegge d’osso, prese le sue mani, legò i polsi alle gambe della modella dietro di lei, e le conficcò le dita nella materia grigia. Posizionò gli ultimi chiodi con la testa capovolta e premuta contro quella parte del corpo. Pulì la frante dal sangue e scrisse “RAGIONE”.
Aveva terminato! Si allontanò un poco dal suo quadro, per poter ammirare l’Opera nella sua interezza. Le lacrime agli occhi. Ora l’uomo si era fuso con l’arte, aveva dato se stesso per quella, il sacrificio necessario perché potesse diventare assoluta. Jen fu colmata da un senso di gioia incontrollabile! Ora mancava il giudizio, quello che l’avrebbe consacrata Immortale!
Dietro di sé Scott era ancora privo di sensi. Lo trasportò davanti all’Opera e gli si mise davanti per svegliarlo. Lo schiaffeggiò ripetutamente, finché il professore iniziò ad aprire gli occhi. Ancora frastornato per il colpo ricevuto, rimase prima incuriosito da ciò che aveva davanti, poi urlò e infine vomitò su se stesso, non capace di trattenere i suoi conati.
"Questa è la mia opera, professore. Non ha titolo perché non può averne; è quella assoluta, l‘uomo fonde se stesso con l‘arte, divenendo una cosa sola!"
Scott non disse nulla; impegnava il proprio tempo ad agitarsi nella sedia, cercando di divincolarsi con la forza dalle strette spire dello spago, riscendo soltanto a procurarsi ferite profonde e insanguinare la corda.
"Qual è il suo giudizio?".
Seguì un gorgoglio nato dal profondo della gola dell’insegnante, che fuoriuscì insieme all’acido verdastro del suo stomaco e andò a colare lento sul suo mento.
Jen si sentì insultata. Una rabbia istintiva irrigidì il suo braccio e le fece infilzare il taglierino nella gola di quel bestemmiatore. Il sangue si mischiò al liquido verde.
La ragazza si sentì delusa, la pervase la sensazione di essere sola, inutile. Ciò però non la intimorì. Con passo deciso andò verso la porta, incitata dal clamore dei suoi spettatori. Sbloccò la porta e la spalancò. Si trovo di fronte un folto gruppo di poliziotti e, poco più in là, di studenti e altri professori. In un battito di ciglia gli agenti le furono addosso, la trascinarono a terra e l’ammanettarono, trattandola come il peggiore dei criminali. Quando, con forza, la tirarono su prendendola sotto le braccia, notò alcuni di loro guardare, esterrefatti, la sua Opera, chi, con le mani, bloccava un probabile grido di terrore rimasto incastrato tra le corde vocali.
Jen sorrise. La sua missione era compiuta. “Ammirate!” pensò. Ora tutto il mondo avrebbe conosciuto il suo genio e nessuno l’avrebbe mai negato.
Il sorriso di Jen non si spense mai, nemmeno quando, durante il solito giorno di visita dello strizzacervelli nella sua cella, lui le porse la sua penna e le chiese di disegnare qualcosa
"Fammi vedere quanto sei brava, Jen."

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